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L'intervista allo chef

Massimo Bottura: «La cucina emiliana è pazzesca, la porterò anche a Singapore. Ma basta con le distese di tavoli...»

di Stefano Luppi
Massimo Bottura: «La cucina emiliana è pazzesca, la porterò anche a Singapore. Ma basta con le distese di tavoli...»

Lo chef modenese e il racconto delle tradizione - e della cucina - della nostra regione

11 gennaio 2024
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Modena «Io vedo per Modena, per Bologna, per Rimini, per le altre città dell’Emilia Romagna un futuro roseo - spiega Massimo Bottura, modenese, il più noto chef al mondo - perché il nostro segreto è l’ossessione per la qualità. Lo sperimento ogni giorno con i produttori più o meno piccoli: qui in Emilia siamo abituati, se una produzione non è come la vogliamo, a svegliarci un’ora prima al mattino e a lavorare un’ora di più la sera per perfezionarla. Questa è la nostra forza, perciò continuiamo con questa ossessione visto che in giro per il mondo tutti ci apprezzano perché alla qualità uniamo il fatto di riuscire a maneggiare l’irrazionale». Per comprendere le caratteristiche della cucina regionale in senso lato - valorizzata dai siti specializzati ed apprezzata dai turisti - chi meglio del patron dell’Osteria Francescana? Bottura è a Casa Maria Luigia, la guesthouse e quartier generale da 12 ettari. Qui, nella campagna modenese, c’è il cuore della “Francescana family” che comprende il celebre ristorante di via Stella, la Franceschetta sempre a Modena, il Cavallino di Maranello dove Enzo Ferrari andava a pranzo essendo a due passi dalla fabbrica di auto più note al mondo. Il gruppo Bottura comprende inoltre i ristoranti aperti con il marchio Gucci a Tokyo e Seoul mentre sta per arrivare a Singapore - notizia che diamo oggi in anteprima - un terzo locale asiatico del celebre e vulcanico chef.

Lo chef ci mostra le sale dove riaprirà a inizio febbraio dopo una manutenzione il “Gatto Verde” - l’ultimo nato della galassia, “tempio” delle cotture alla brace collocato tra la villa Maria Luigia e la storica acetaia - nelle cui sale si vedono numerose opere d’arte, da quelle storiche di Franco Vaccari e al curioso ritratto che Gian Marco Montesano ha dedicato proprio allo chef fino a lavori di grande successo di Mike Bidloo che fa una interessante operazione di ready-made sui grandi artisti con i suoi “not Pollock” e “not Andy Warhol”.

In questi spazi densi di arte contemporanea - passione di Bottura e della moglie Lara Gilmore - tra il via vai dei tecnici e impiegati si vedono prodotti in vendita e copie dell’ultimo libro dello chef e della moglie, “Slow Food Fast Cars” (edizioni Ippocampo, 39,90 euro).

Bottura, il suo nuovo ristorante asiatico conferma l’importanza della cucina emiliana nel mondo, testimoniata anche dalla graduatoria stilata da Taste Atlas, no?

«Esatto, il 15 febbraio apriamo il terzo locale in Asia, dove amano moltissimo gli italiani, in un posto pazzesco come Singapore. Portiamo là la cucina italiana ed emiliana, i miei ragazzi, con Enrico il mio braccio destro, sono già là al lavoro da tempo: nel locale ci sarà un grande forno a legna centrale e nella cucina porteremo tutta l’esperienza maturata a Maria Luigia. Sarà un successo, del resto gli asiatici come gli americani hanno il mito dell’Italia. Vedrete che anche il Gatto Verde, qui a Modena, nel 2024 crescerà tantissimo anche perché gli stranieri sotto la Ghirlandina sono sempre di più: gli asiatici stanno ritornando mentre per la prima volta arrivano gli australiani».

Come si spiega il grande successo dal punto di vista turistico dei nostri territori e della nostra cucina?

«Io penso da tempo che l’alleanza tra i motori della Motor Valley e il cibo sia una carta davvero vincente e destinata a svilupparsi: certo, molti conoscono la Francescana, ma ancora pochi tutto il mondo delle piccole e micro produzioni di eccellenza delle nostre province. Ecco perché parlavo di ossessione per la qualità, pensi a Rosola in Appennino premiato dopo 25 anni per la vacca bianca oppure alla Ferrari che ha ordini per dieci anni».

Nella classifica di Taste Atlas l’Emilia Romagna è la seconda miglior cucina al mondo, dopo la Campania e prima di Giava. Che ne pensa?

«Può starci, la Campania è trascinata da grandi produttori e grandi ristoranti. Tra i primi penso a Vannulo per la mozzarella oppure al ristorante Don Alfonso nella costiera sorrentina che 40 anni fa ha formato i giovani cuochi delle attuali 2-3 stelle Michelin, come Antonino Cannavacciuolo e Gennaro Esposito. Senza dimenticare la pizza di Martucci a Caserta, oppure il tre stelle “I quattro passi” dei Mellino. Ma anche l’Emilia, e lo posso dire girando il mondo da oltre vent’anni, è davvero un passo avanti e per questo ho deciso di investire qui. Abbiamo eccellenze per quanto riguarda i prodotti e gli artigiani, casari, pescatori, contadini, allevatori».

Chi le viene in mente?

«In un mio personalissimo ricordo fin da piccolo venivo portato dalla mia famiglia in una trattoria vicino al Po a Samboseto nel parmense dove Mirella Del Nevo e Giuseppe Cantarelli facevano una cucina di territorio aperta al nuovo e per questo avevano raggiunto le stelle Michelin. De Niro e Depardieu quando giravano Novecento di Bertolucci andavano lì. Poi ricordo il San Domenico di Imola oppure un altro luogo pazzesco come il Trigabolo di Argenta dove Igles Corelli ruppe i legami con la tradizione e usava la materia prima del posto esplorando però nuovi sapori. Poi a Piacenza arrivò l’Osteria del Teatro di Georges Cogny che mi aprì alla confidenza del mio palato. Quando io iniziai a Modena, al Campazzo, portai le tecniche della cucina tradizionale che poi introdussero la Francescana. Se devo invece citare un luogo attuale dico “Da Gorini” in Romagna a San Piero in Bagno, molto interessante».

Quale invece il suo podio mondiale del mangiar bene?

«Insieme all’Emilia Romagna e alla Campania metto i Paesi Baschi e la Catalogna, oltre a Copenaghen e Tokyo».

Il “nostro” vino, il Lambrusco, in che fase è?

«Oggi è molto apprezzato benché la sua importanza fino a tempo fa fosse azzerata a causa delle politiche sbagliate degli anni ’80. Si puntò allora sulla quantità, vendendolo anche in lattina, e non sulla qualità. Oggi sono arrivati micro produttori giovani come Chiarli, Paltrinieri, Cavicchioli con la Vigna del Cristo e questo vino è tornato a crescere. Vedo che le star hollywoodiane a Maria Luigia me lo chiedono anche perché si sposa ottimamente con la nostra cucina di tradizione, che è grassa».

Ci consigli dei prodotti di successo della nostra regione sui quali puntare.

«Posso dire che la mia colazione a Maria Luigia con Jessica Rosval fa impazzire chi l’assaggia. E’ la colazione che mia nonna - non una grande cuoca perché “doveva” cucinare a differenza di mia mamma che invece “amava” cucinare - faceva nei giorni di Natale: gnocco fritto con prosciutto e mortadella, frittatina con aceto balsamico, erbazzone, cotechino cotto sotto la cenere, zabaione e sbrisolona. Invece per quanto riguarda prodotti di nicchia ancora non conosciuti da tutti cito i vini piacentini, che stanno crescendo tantissimo, e alcuni micro produttori di pecorino e pecorino di fossa in Romagna. Tralascio ovviamente eccellenze notissime in tutto il mondo come il Parmigiano, il Parma, il culatello, i tortellini».

Binomio cibo-turismo dunque avanti tutta?

«Sì, anche perché si può ancora fare molto per la conoscenza, a esempio di tante strutture e luoghi per cui occorre crescere nella ospitalità. Importanti alcuni eventi, penso a esempio ad El Meni che a Rimini, vicino al Grand Hotel sul lungomare, facciamo da anni attirando 50-60mila persone. Qui utilizzando i prodotti emiliano romagnoli i giovani chef del mondo cucinano: anni fa ad esempio è venuto Virgilio Martinez del peruviano Central, oggi miglior ristorante del mondo».

Ci sono dei rischi nel futuro roseo che citava all’inizio?

«Il rischio è che le nostre città si trasformino in una distesa di tavoli, come accade a Bologna che ora ha ammesso di avere sbagliato. A Modena ci sono due zone, via Gallucci e zona Pomposa e forse sono pure troppe: si punti sulla qualità, anche nei cocktail invece di dare i centri storici in mano agli ubriachi, trasformandoli in “tavolinifici”».

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