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Modena, Laura Marziali rinasce con il teatro: «Quanti pregiudizi legati al cancro»

Ginevramaria Bianchi
Modena, Laura Marziali rinasce con il teatro: «Quanti pregiudizi legati al cancro»

Domenica 24 l’evento al teatro Attozero: «In Italia serve più tolleranza»

21 marzo 2024
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Quando hai poco più di venticinque anni non pensi che sia possibile morire.

Laura Daphne Marziali, marchigiana di 35 anni, conosce bene la sensazione di vuoto e incredulità che si prova davanti alla frase: «Signorina, lei ha il cancro».

Dopo decine di visite, era questa la sua diagnosi: un tumore alla cervice uterina. Così, nel 2017, ha avuto inizio il suo percorso di guarigione in una clinica ad Aviano, una struttura situata nel bel mezzo delle Dolomiti dall’atmosfera intima e privata.

Qui, ha iniziato a scrivere i suoi “diari della malattia”, una raccolta di appunti, dialoghi e pensieri sulla morte e sull’accettazione di essa.

Laura, dopo un intervento, è riuscita a guarire. Ha accantonato in uno scatolone gli scritti e ha iniziato a ricercare una nuova quotidianità. Ma non era ancora a conoscenza del fatto che il tumore sarebbe stato uno spartiacque sulla linea della sua vita, creando un vero e proprio “a.c.”e “d.c.”: la vita prima e dopo il cancro.

Da quel momento in poi, Laura ha avuto un primo e un secondo tempo. Il primo tempo parla di una ragazzina che scopre di avere una malattia potenzialmente terminale. Il secondo tempo è cominciato invece quando Laura ha trent’anni.

È la storia di una donna che svela sui palchi di tutta Italia i segreti trascritti sui diari di quella ragazza che temeva tanto di morire, e che invece, oggi, è più viva che mai. Tra le tappe di “C’è Tempo tour” c’è anche Modena.

Domenica 24 marzo alle 18, presso il teatro Attozero, Laura parlerà di prevenzione con un team di esperti locali, della malattia che l’ha colpita e di tutti i pregiudizi che ancora esistono al riguardo.

Marziali, ci racconti del suo rapporto con la malattia.

«Avevo 28 anni quando la dottoressa mi disse che avevo un tumore. Ero molto giovane e non sapevo quale sarebbe stato il mio percorso. In realtà, non sapevo nemmeno se effettivamente sarei sopravvissuta. Ho fatto molta fatica ad accettare l’idea di poter morire e allora ho iniziato a sfogarmi su carta, sperando di riuscire a lasciare un ricordo prezioso ai miei familiari nel caso non avessi dovuto farcela. Ce l’ho fatta e, nei mesi successivi alle terapie, pensai di aver chiuso il capitolo della mia malattia. Mi sbagliai. Avere il cancro in un’età giovane significa ritornare nella “società della performance” in maniera differente e non collaudata. Sei rotta, vulnerabile e, nel mio caso, anche senza capacità riproduttiva. Quindi, oltre al mio complesso il mio percorso personale di accettazione ed elaborazione della patologia, ecco che mi venne presentato un altro sbarramento, che potrei riassumere in tre parole brevi e incisive: “tu non puoi”».

Riesce a fare degli esempi concreti di questi impedimenti imposti?

«Me lo sono sentita dire in una concessionaria, quando, insieme a mia madre, volevo andare a comprare una nuova macchina. Il venditore mi disse: “Tu non puoi fare la pratica, perché non possiamo ottenere un finanziamento se hai avuto una patologia oncologica. Dovrebbe farla tua madre per te”. E me lo sono sentita dire da una direttrice di banca quando, qualche anno fa, sono andata ad informarmi per un prestito e per il mutuo. Mi fu detto: “Noi possiamo concedere un prestito, ma senza copertura assicurativa”. Persino gli assistenti sociali rimarcarono il concetto, quando mi dissero che non avrei mai potuto adottare a causa della malattia che avevo avuto. Il loro ghigno non lo dimenticherò mai».

Sul palco racconterà quindi delle cicatrici visibili e invisibili che le ha lasciato il cancro?

«Esattamente. Tutte le persone che sono guarite da un tumore convivono a tempo indeterminato una disabilità invisibile. Io lo so, l’ho provato sulla mia pelle. Ma noi non siamo il nostro tumore, ed è ora che ciò venga riconosciuto e accettato anche dalla società e non solo dalla burocrazia, affinché nessuno di venga più marginalizzato. Ci sono ancora uomini che sul posto di lavoro non dichiarano di essere malati perché hanno paura di perdere il posto e non saprebbero più come mantenere i propri figli. Ci sono troppi bambini a cui vengono strappate le opportunità dell’infanzia. Ci sono tante donne che non possono aprirsi nemmeno un conto in banca».

Come si fa, dunque, a ritornare alla vita?

«Me lo chiedo spesso, e lo chiederò anche domenica ai modenesi. Spesso mi arrivano feedback positivi dopo gli spettacoli. Molte donne mi scrivono che dopo averla sentita parlare di prevenzione hanno trovato il coraggio di fare uno screening, oppure che hanno smesso di scoraggiarsi di fronte alla loro malattia. Nessuno, però, ha ancora saputo aiutarmi a capire come ci si riesce a reinserire nella società dopo aver avuto un tumore. Non so cosa ne pensa lei, ma io questa, a livello umano, la chiamo “discriminazione”. È compito delle istituzioni rimuovere questa disparità di trattamento, così come è nostro compito non sottovalutarla».

Cosa si augura per il futuro?

«Spero che l'Italia possa avere più tolleranza in materia di diritto all'oblio oncologico, perché chi è guarito da un tumore, fa ancora molta fatica a inserirsi. È come se fosse macchiato da una colpevolezza che non ha. Spero che le banche e le compagnie assicurative facciano la loro parte e che si evitino indagini lesive della persona quando si tratterà di accedere alle pratiche di adozione. Spero nel buon lavoro dell'organo della consulta e spero che anche l'ambito professionale possa far valere le sue tutele. So perfettamente che ogni settore ha bisogno delle sue tutele, ma è ora che chi ha contratto una patologia oncologica smetta di dover vivere a metà». l

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