Gazzetta di Modena

I 400 colpi / Vita morte e miracoli di Elvis, re del rock secondo Baz Luhrmann

Alberto Morsiani
I 400 colpi /  Vita morte e miracoli di Elvis, re del rock secondo Baz Luhrmann

26 giugno 2022
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L’uscita di gran lunga più interessante della settimana è “Elvis” di Baz Luhrmann, presentato fuori concorso al festival di Cannes. Un caleidoscopio di gioielli vorticanti annuncia il titolo cubitale, e non lascia alcun dubbio sul marchio che il regista australiano imporrà a vita, morte e miracoli del Re del Rock: la cifra dell’eccesso barocco tipico di Luhrmann si sposa perfettamente con la dimensione della leggenda di Elvis, icona bifronte d’America, figura controversa di dio e ciarlatano, di icona per i bianchi e di usurpatore per i neri, a seconda della cultura e del credo.

Nel film, ogni fase della carriera del divo ha l’afflato epico e kitsch di un racconto tra il supereroico e il mitologico: l’ispirazione ai ritmi afroamericani, l’incarnazione del sesso sul palco dell’America bigotta, la prigionia dorata nell’International Hotel di Las Vegas sono capitoli di un monumento cinematografico che è il doppio di “Moulin Rouge!” (2001), uno dei musical del regista (“lei canta, balla, muore” era la sinossi di Baz per Satine: vale anche per Elvis, mimato alla perfezione dal pupazzo di carne Austin Butler) e l’ideale “double bill” di “La fiera delle illusioni”, con un Tom Hanks perfido e repellente nei panni del colonnello Parker, avido sfruttatore del suo fenomeno da baraccone.

Nel cinema di Luhrmann, il musical è sempre stato una vertigine e un vortice nel quale i linguaggi dello spettacolo e dell’insieme dei media vengono elaborati come segno di un’esperienza percettiva in flusso costante. “Ballroom” (1992) non è un esordio, ma una dichiarazione, “Romeo + Giulietta” (1996) è un vero e proprio saggio di decostruzione collettiva all’epoca di Mtv. Il cinema per Baz è una ballroom, una sala da ballo. E solo chi non conosce la passione dell’apparenza pura può banalmente lanciare accuse di superficialità contro il suo cinema. Elvis diventa nelle sue mani non l’angelo caduto di Nick Cave, ma il rimosso di un pensiero. Il femminile negato, la voce rubata, il colore sottratto. Nel far esplodere queste contraddizioni il regista crea anche un ritratto di un’ideologia dello spettacolo che si presenta come eccessiva, una fantasmagoria folle. La solitudine è ciò che resta quando “Elvis ha lasciato l’edificio”.

E la solitudine è solo un’altra parola per dire morte. E la morte è la fine del consumo. E senza consumo non c’è spettacolo. E senza spettacolo non c’è vita. Baz lo sa, e crea sempre un carnevale infinito per essere dalla parte di chi muore, sotto i riflettori o meno. Brevemente, segnalo due horror (l’estate è il loro momento), “Black Phone” di Scott Derrickson (un adolescente viene rapito da un sadico assassino e rinchiuso in un seminterrato insonorizzato, ma può sentire le voci delle precedenti vittime che vogliono aiutarlo) e “Studio 666” di BJ McDonnell , una comedy horror musicale basata sull’attitudine creativa e sulla giocosità anarchica della band dei Foo Fighters.