La seconda vita di Messori: «Tutto grazie allo sport»
Il capitano della Nazionale di calcio per amputati ripercorre le tappe della sua carriera
«Grazie alla fondazione di questa realtà, molte persone hanno avuto la possibilità di avere una seconda vita attraverso quello che riescono a fare con ciò che hanno», afferma Francesco Messori, ideatore e capitano della Nazionale di calcio per amputati ed ex giocatore nel campionato regolare di calcio a sette del CSI a Modena, oggi segretario nell’area femminile del Sassuolo calcio.
Come è venuta l’idea di creare una squadra di calcio per amputati?
«Io da piccolo giocavo con la protesi insieme ai normodotati, poi l’ho abbandonata continuando a giocare con i normodotati però con le stampelle, il CSI aveva deciso di tesserarmi, per darmi la possibilità di giocare insieme ai normodotati a livello ufficiale, però giocando ho capito che non riuscivo a divertirmi abbastanza perché volevo sì capire quali fossero le mie capacità, però alla pari con altri. Io avevo 13 anni, e questo era un mio grande desiderio, sono sempre stato sostenuto dai miei genitori, soprattutto da mia mamma e insieme a lei abbiamo deciso di documentarci, abbiamo visto che nelle altre parti del mondo esistevano già squadre di calcio per amputati, mentre in Italia no. Ci siamo dunque chiesti perché non provarci anche qui. Nel nostro piccolo, grazie a Facebook, siamo riusciti in un anno a creare questo gruppo dove chi per un trauma, chi per una malformazione congenita come la mia, chi per determinate situazioni era rimasto amputato, ottenendo così richieste di persone che hanno permesso la nascita della Nazionale Italiana di Calcio, nel dicembre 2012 da parte del Csi».
Qual è il tuo idolo sportivo nel calcio?
«Allora, adesso il mio rapporto con gli idoli non è come prima. Io sono sempre stato sfegatato di Messi, che è un po’ l’idolo sportivo che mi ha accompagnato da quando ho iniziato il mio percorso sportivo fino a qualche anno fa poi è chiaro che come tutte le cose pian piano è iniziato a scemare. Messi è sempre stato il calciatore al quale mi sono ispirato, che ha anche portato al fatto che mi chiamassero come lui perché entrambi siamo mancini, e il mio cognome ha una certa assonanza con il suo. Però quello che ci tengo sempre è far capire quanto sia importante la nostra persona. Non vi nego che in un mio periodo di crisi mi faceva male il fatto di essere chiamato Messi, perché io non sono Messi, io sono Francesco. Voglio mettere tutti al corrente di quanto sia rischioso essere paragonati a qualcuno, perché questo in qualche modo ci allontana dalla nostra verità».
Ci sono state delle difficoltà nel suo percorso di vita?
«Per quanto ci siano state cose belle che hanno portato felicità per tanti, è chiaro che dipende sempre da come le viviamo, perché se noi, le esperienze che viviamo dentro, le utilizziamo per dire “sono il numero uno, nessun altro è come me perché solo io ho fatto questa cosa”, possiamo dire che il delirio di onnipotenza è dietro l’angolo. E sicuramente tutte queste cose che ho vissuto, portandole poi con me nel periodo buio, non hanno fatto bene, non sempre tutto magari va come vorresti, ma io credo che ci voglia pazienza e fede. La differenza sta sempre nel come vivi le cose, ma io dico che all’uomo basta poco per montarsi la testa. Condividere questa cosa per me adesso è molto importante».
Cosa significa vedere i giocatori della vostra nazionale rappresentare il Paese e tutte le persone con disabilità?
«Per quanto mi riguarda questa realtà ha prima di tutto un valore umano che io metto sempre al primo posto perché persone che hanno subito un trauma nella loro vita, grazie a questa nazionale hanno avuto modo di vivere una seconda vita. Se parliamo di sport è giusto parlare anche di agonismo perché è sbagliato pensare di andare in campo senza competitività, è giusto andare in campo per vincere, il vero problema nasce quando vincere diventa l’unica cosa che conta. L’agonismo c’è anche da parte nostra e credo che rispecchi totalmente quello che può provare un normodotato che veste la maglia della nazionale, ovviamente non con lo stesso seguito, ma come valore sostanziale credo che sia la stessa cosa, se non di più, perché grazie allo sport non vieni più visto per quello che ti manca, ma vieni visto e considerato per quello che riesci a fare con ciò che hai, con quello che ti è rimasto. Per alcune persone quello che ti è rimasto non è sufficiente per continuare a vivere, ma grazie allo sport questa testimonianza dice tutto il contrario».
*studentesse del liceo Fanti, classe 3V