Il difensore del Sassuolo Filippo Romagna si racconta: «Il calcio è la mia vita, ma lo studio...»
L’intervista al giocatore neroverde partito da Fano: «La svolta con l’approdo alla Juve. Mi sono iscritto all’università e non ho mai lasciato i libri, è il “piano B”»
SASSUOLO. Non è solo la realizzazione di un sogno, ma anche la ricerca di una grande forza di volontà per reagire alle difficoltà causate dall'infortunio e la dimostrazione di come il supporto di familiari ed amici possa fare la differenza.
Questa è la storia di Filippo Romagna, calciatore e punto di riferimento del Sassuolo impegnato nel campionato di Serie B.
Quando ha iniziato a giocare a calcio?
«Nel 2001, a 4 anni, seguendo l’esempio di mio fratello. Ricordo ancora il mio primo allenamento, l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle torri gemelle. All’inizio non vedevo il calcio in un’ottica lavorativa. Sono nato a Fano, nelle Marche, e dagli 11 ai 14 anni sono andato a giocare a Rimini. In seguito, sono stato selezionato dalla Juventus. Questo è stato un momento chiave della mia vita, ma sicuramente non facile, essendo molto legato all’ambiente familiare».
Quali sono stati i momenti più importanti della sua carriera?
«Sicuramente il passaggio dal Rimini alla Juventus. A Rimini ero in serie C nelle giovanili, in una squadra dove ero l'elemento di punta di cui tutti parlavano, mentre alla Juve erano stati selezionati ragazzi forti, alcuni provenienti dall’estero, tra i quali dovevo farmi spazio. Questo non è stato facile».
Quali sono gli aspetti positivi e quelli negativi della vita da calciatore?
«Adesso sono in grado di notare soprattutto gli aspetti positivi, perché si ha tanto tempo da poter dedicare alla famiglia ed ai propri hobby, come lo studio. È una vita da adagiati. I miei momenti più difficili li ho vissuti circa a 14 anni. Coloro che venivano a conoscenza della chiamata che avevo ricevuto dalla Juve mi suggerivano di lasciare tutto. In realtà trovarsi in prima persona ad affrontare questi momenti non è facile: avevo la consapevolezza del fatto che pochi tra quelli che avrebbero fatto questa esperienza sarebbero diventati calciatori. Sono sempre stato molto attaccato alla famiglia ed alle amicizie di Fano, che è a 5 ore di viaggio da Torino. Prima di accettare la proposta ho tentennato, all’inizio avevo addirittura rifiutato. Noi ragazzi della Juventus vivevamo in un convitto, non esisteva un weekend in cui non dovessimo preparare la partita del giorno dopo. Inoltre dovevamo studiare la scuola. Soffrivo quando i miei amici di Fano potevano trascorrere tutto il periodo estivo al mare, mentre io potevo stare con loro solo un mese. In tanti hanno fatto i miei stessi sacrifici, ma non sono serviti. Siamo cresciuti dal punto di vista personale, come uomini, però alcuni si sono dovuti reinventare, io mi ritengo fortunato».
Il tuo grave infortunio ti ha tenuto lontano dal campo per molto tempo. Qual è stata la sfida più grande durante il recupero, sia a livello fisico sia mentale?
«Ho avuto questo infortunio nel 2020 e sono rientrato in campo alcuni anni dopo, per cui è stato un periodo difficile, con diversi momenti bui: mi sono accorto di non essere stato in grado di dare il meglio di me stesso a causa dell’eccessivo dolore. Ho dovuto affrontare un altro intervento che non era mai stato fatto su un calciatore. Ho avuto parecchi dubbi e incertezze sul mio ritorno in campo. Sono stato molto fortunato ad avere una società che mi ha aiutato molto, così come la mia famiglia e in particolar modo mio fratello che, da Fano, mi raggiungeva per tranquillizzarmi».
Se non fosse riuscito ad affermarsi nel calcio, quale mestiere le sarebbe piaciuto fare?
«Ho capito che avrei potuto diventare un calciatore a 16/17 anni, anche se lo desideravo già prima. Da piccolo ero convinto di voler fare il medico come mio padre, percepivo il calcio come un momento di svago e divertimento. Non ho mai mollato con lo studio. È un piano B che ho sempre portato avanti, soprattutto quando mi sono infortunato. In quel momento non ero iscritto all’università: quando ho intravisto la possibilità di dover smettere a giocare a calcio mi sono posto numerose domande sul mio futuro. Nel post carriera ancora non so cosa farò, voglio avere più alternative possibili».
Cosa consiglierebbe ad un giovane calciatore?
«Io suggerisco sempre di non arrendersi mai nelle difficoltà, concentrandosi sull’obiettivo e continuando a migliorarsi. È importante avere un piano B, un percorso alternativo: il mio mestiere occupa solamente mezza giornata, pertanto è consigliabile coltivare passioni e interessi nel tempo libero, dai quali si può ricavare qualcosa in futuro. Il vantaggio di avere un hobby è quello di migliorare la capacità di attenzione, in campo e fuori». Ha un rito scaramantico che esegue prima di scendere in campo?
«Indosso prima il parastinco sinistro, su cui è raffigurata una fenice araba, e lo bacio. Questo gesto è un segno di rivincita in seguito al mio infortunio alla gamba sinistra, appunto».
Il giorno della partita, quali sono le sue attività quotidiane?
«Se si gioca alle 15, la colazione è entro le 9 con un toast o delle uova. A metà mattina è necessario svolgere attività di risveglio muscolare. Si pranza verso le 12. Nel caso in cui la partita sia di sera, al pomeriggio ci riposiamo e studiamo gli avversari, basandoci sui video che ci vengono forniti».
*studentesse del liceo Muratori-San Carlo, classe 5D