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Scuola 2030

Modena, energia nucleare al Corni: «Tra esperimenti e analisi»

di Asia Marzo e Annalisa Profeti*

	Un momento della presentazione all'istituto Corni
Un momento della presentazione all'istituto Corni

L’ex studente Giuliano Vicenzi: «Il corso ha chiuso nel ’79»

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MODENA. L’istituto tecnico industriale di Modena è stato fondato grazie all’iniziativa dell’imprenditore Fermo Corni.

Per far fronte alla carenza di operai specializzati e tecnici, costretto ad importarli da Austria e Germania per le proprie fabbriche di componenti meccanici, promosse l’istituzione di una scuola tecnica a Modena presso Largo Aldo Moro. La scuola avviò le sue lezioni nel 1921 e negli anni fra le due guerre il Corni fu sede di corsi focalizzati sul mondo del lavoro e della produzione industriale e artigianale, a partire dai settori meccanico ed elettronico.

Solo nell’autunno del 1959 il Ministero approvò l’inserimento del nuovo corso di Energia nucleare, frequentato sia dal prof Giuliano Vicenzi, docente per anni del corso di Elettronica, che dal vincitore del Premio Corni 2024 l’ingegnere Gian Luigi Fiorini.

Dopo aver assistito alla lectio magistralis di Fiorini in occasione del Premio Corni, abbiamo incontrato ed intervistato il prof Vicenzi per capire, in un momento in cui si riparla in modo insistente di un possibile ritorno al nucleare, come era strutturato il corso.

Vicenzi ci ha spiegato che una tipica settimana del triennio era suddivisa in 38 ore di lezione, delle quali 4 erano pomeridiane e si svolgevano in laboratorio.

Agli studenti era richiesto di presentare una relazione di 20 pagine al mese, la quale doveva essere provvista di misure appropriate e grafici.

La maggior parte degli esperimenti si tenevano nei laboratori di Elettrotecnica e di Fisica nucleare.

Come si svolgevano i laboratori nel corso di Energia nucleare?

«Durante la settimana partecipavamo a diversi laboratori pratici. Ad esempio, c’era il laboratorio di montaggio elettronico, in cui assemblavamo e collaudavamo circuiti, e quello di fisica nucleare, che spesso comportava esperimenti complessi. Una delle sperimentazioni che abbiamo svolto riguardava l'assorbimento dei raggi gamma, con l'obiettivo di determinare come variassero l'intensità dei raggi al cambiare dello spessore e del tipo di materiale assorbente. Per l'esperimento veniva utilizzata una sorgente radioattiva a bassa attività, costituita dall'isotopo di cesio, un rivelatore di radiazione e un materiale assorbente, che nel nostro caso erano piastre di piombo. Il procedimento prevedeva di posizionare il rivelatore a una distanza fissa dalla sorgente, misurando il numero di conteggi gamma sia senza materiale assorbente, sia con il materiale in posizione. Successivamente, si passava all'analisi dei dati, una fase che spesso richiedeva più tempo dell'esperimento stesso. Quest'analisi necessitava un buon livello di competenza matematica per poter sviluppare con precisione il grafico dell'intensità del raggio in funzione dello spessore.

L'obiettivo pratico dell'esperimento era quello di comprendere la natura esponenziale dell'assorbimento dei raggi gamma, l'effetto schermante dei materiali e la loro capacità di assorbimento».

Nella sua spiegazione ha sottolineato come il “pentolone” e la sorgente radioattiva si trovassero all’interno del laboratorio. Quali erano i sistemi di sicurezza per proteggere professori e studenti?

«Le uniche precauzioni adottate dalla scuola consistevano in semplici catenelle bianche e rosse, che impedivano ai professori e studenti di avvicinarsi non più di 2 metri. Naturalmente, il pentolone veniva utilizzato per esperimenti potenzialmente dannosi all’uomo, ma le misere quantità a cui eravamo esposti non presentavano alcun rischio per la salute. Dopo 20 anni dalla chiusura del corso, intorno al 1993-1994, decisero di chiudere anche il laboratorio e di rimuovere il “pentolone”, il quale, in seguito alla comunicazione delle nuove normative sulla sicurezza era stato spostato in un locale in cemento armato, chiuso da una porta in ferro».

Avete avuto esperienze sul campo prima del termine del corso?

«Sì. Nel quarto anno, la scuola ci ha portati al Politecnico di Milano, dove, all'epoca, era attivo il reattore nucleare termico omogeneo "L-54 Enrico Fermi", con una potenza di 50 kW, utilizzato per la ricerca e la formazione degli studenti universitari. Sebbene fossimo ancora alle scuole superiori, il nostro livello di preparazione ci permetteva di accedere a questa esperienza, offrendoci l'opportunità di integrare teoria e pratica in un contesto di ricerca avanzata. Durante la visita, osservavamo e simulavamo il funzionamento controllato del reattore, analizzando i parametri nucleari, il tutto mentre ci trovavamo in un bunker con una finestra che dava direttamente sul reattore».

Qual è stata la sua prima esperienza lavorativa nel campo del nucleare?

«Nemmeno una! Appena diplomato pensavo di iniziare ingegneria. Non sapevo niente sull’informatica, eppure un amico mi aveva chiesto aiuto nella sua azienda, dove cercavano qualcuno in grado di gestire la scheda elettronica. Mi trovai davanti a uno dei primi computer arrivati in Italia. Dovetti studiare un fascicolo di 30 fotocopie in inglese, e dopo averlo studiato e averlo trovato persino facile, riuscii a farlo funzionare. Dopo il corso di nucleare, mi sono completamente dedicato all’elettronica nella quale, grazie all’eccellente preparazione del Corni, ho riscontrato pochi problemi durante la mia carriera. Fortunatamente, altri miei compagni che avevano lasciato l’Italia hanno trovato lavoro in altri paesi europei, come la Francia, in cui il nucleare era ancora in uso e dove ha lavorato e lavora anche Fiorini». 

*studentesse della classe 4A, liceo scientifico scienze applicate Corni