Il monito della polizia penitenziaria: «Al Sant’Anna non solo detenuti, ma persone»
Gli agenti del carcere modenese si raccontano agli studenti del Sigonio
MODENA. Vi siete mai chiesti com’è la vita di un poliziotto penitenziario, ogni giorno oltre quel cancello e quella divisa, dove la tensione non è un'eccezione ma la normalità? Alcune figure di vertice all’interno del carcere Sant’Anna di Modena, attraverso le loro testimonianze, hanno messo in luce aspetti spesso ignorati della vita carceraria, raccontandoci quelle che sono le difficoltà del loro ruolo, che richiede fermezza ma anche sensibilità, soprattutto nel mantenere sicurezza e rispetto della persona.
Il piano umano
«Il rapporto con i detenuti è necessariamente formale, come previsto dal nostro regolamento, e deve basarsi sul reciproco rispetto. Tuttavia, accanto a questo approccio istituzionale, è fondamentale mantenere anche un’attenzione sul piano umano. Nel nostro settore, nei momenti in cui entriamo in contatto con i detenuti, cerchiamo di cogliere eventuali criticità e intervenire quando possiamo. Anche un’esigenza apparentemente semplice, come la necessità di effettuare una telefonata, può rappresentare per il detenuto un bisogno fondamentale. In questi casi ci attiviamo per fornire il supporto necessario e trovare una soluzione tempestiva», riporta un ispettore dell’istituto. Nel contesto carcerario, sono sempre le notizie negative a fare più rumore, mentre le numerose storie di speranza passano spesso inosservate.
A questo proposito il comandante ci racconta: «Purtroppo le notizie positive raramente fanno clamore. Recentemente abbiamo lottato affinché venisse riconosciuta l’azione di un nostro collega che, durante il carnevale a Piumazzo, ha salvato un bambino. Un gesto importantissimo che non ha ricevuto l’attenzione che meritava. Ogni giorno, però, noi svolgiamo tantissime attività che vanno ben oltre il semplice ruolo del poliziotto. Il nostro lavoro non si limita a garantire sicurezza all’interno del carcere, ma anche quella della società esterna. Il nostro ruolo va oltre, noi siamo educatori, viviamo accanto ai detenuti ogni giorno, per molte ore. Svolgiamo in parte anche il ruolo dello psicologo. Poco fa, per esempio, ho fatto un colloquio con un detenuto: in questi momenti non si può guardare l’orologio. Quando una persona ti racconta un disagio, una difficoltà o semplicemente ha bisogno di parlare, il tempo deve passare in secondo piano».
«Serve un approccio diverso»
Quando si pensa al carcere, la mente corre inevitabilmente a un ambiente maschile, spesso dimenticando che anche le donne vivono esperienze simili, ma in un contesto tutto loro. Di questo ce ne parla una ispettrice che ha lavorato per molti anni all’interno del settore femminile: «In Italia le donne detenute rappresentano solo il 10% della popolazione carceraria. Dal punto di vista sociologico non c'è ancora una risposta definitiva che giustifichi questo dato. Secondo me, è più una questione di indole: le donne hanno una natura diversa, spesso meno incline alla violenza. A parte alcune grandi città come Napoli, Milano, Roma, Torino, i reparti femminili sono piccoli. Per esempio a Modena il reparto può ospitare al massimo 38 persone. È una sezione gestibile molto diversa dall’immaginario comune, ricorda più un reparto ospedaliero: c’è un ufficio per gli agenti al centro e due ali laterali con le celle. L’ambiente è più colorato e familiare e il rapporto tra agenti e detenute è più diretto e umano. Dopo anni che si conosce una persona è normale scherzare o parlare con confidenza, sempre mantenendo rispetto reciproco. Le donne in carcere sono spesso madri e questo rende la questione ancora più delicata. Il reparto femminile è quindi molto diverso da quello maschile, non solo sotto questo punto di vista ma anche per il tipo di relazione: le donne sono spesso più fisiche nel modo di comunicare e più complesse dal punto di vista emotivo. Serve un approccio diverso, più empatico. E sì, è un lavoro pesante, ma se è fatto con umanità può diventare anche molto arricchente».
Una scelta da rifare
Gli intervistati hanno concluso affermando che rifarebbero la stessa scelta lavorativa, sottolineando come questo lavoro, pur richiedendo impegno e studio, abbia offerto molte soddisfazioni, sia in termini di carriera che di crescita personale. Hanno evidenziato come, attraverso le difficoltà, abbiano imparato ad essere più responsabili e razionali, in particolar modo nella gestione delle persone. Hanno anche spiegato che l’ambiente all’interno dell’istituto è molto diverso da quello che si immagina all’esterno, spesso anche a causa di film o fiction che dipingono questo ambiente in maniera distorta. Mentre dalla polizia penitenziaria viene visto come una “città a sé” con dinamiche proprie che sfuggono a chi non lo vive quotidianamente. Nonostante le difficoltà legate all’ambiente carcerario e alcune gratificazioni lavorative, hanno concluso all’unanimità dicendo che, sebbene complesso, rifarebbero senza ombra di dubbio lo stesso percorso.
A cura della classe 4I del liceo Sigonio
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