Gazzetta di Modena

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Ecco la vera storia della famosa rapina alla Galleria Estense

di Paolo Baron
Ecco la vera storia della famosa rapina alla Galleria Estense

Faccia d’Angelo: gesti, colpi clamorosi e spedizioni punitive sapeva confondere le indagini come un illusionista

01 aprile 2012
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PADOVA. Felice Maniero e i mille misteri sull'asse Riviera del Brenta-Modena. Che Faccia d'Angelo avesse eletto la città emiliana come sua seconda casa, non lo testimoniano solo lo spaccio di droga e il controllo del racket delle bische. Felicetto, anche dopo aver costretto lo Stato a scendere a patti, ha continuato fino anche dopo il Duemila a frequentare amici e ristoranti di Modena. Città che gli ha permesso di conquistare la fiducia dei Casalesi (grazie all'accordo per la gestione delle bische e l'alleanza contro il clan De Falco), ma anche di ripetere quello che è un po' il copyright di Faccia d'Angelo: sequestrare cose, per chiedere in cambio cose.

La grande rapina. Accadde la prima volta il 10 ottobre del 1991: quel pomeriggio quattro persone armate (in seguito si scoprì che erano Andrea Zammattio, Andrea Batacchi, Stefano Galletto, poi pentito, e Giulio Maniero cugino di Felice) entrarono in Basilica del Santo e dopo aver immobilizzato una guardia a alcuni fedeli, rubarono il mento di Sant'Antonio che fu fatto ritrovare ufficialmente a Fiumicino. Più o meno alla stessa ora (le 18,30), qualche mese dopo, il 23 gennaio del 1992, sempre quattro persone, travisate e armate di pistola, immobilizzarono i custodi della Galleria Estense del Museo civico di Modena in via Vittorio Veneto e rubarono quattro preziose tele: il ritratto di Francesco I d'Este dipinto da Velasquez, una tela a olio raffigurante Piazzetta San Marco di Francesco Guardi e un trittico di El Greco. Parte delle tele furono ritrovate quasi due anni dopo, il 7 dicembre 1993 (Maniero fu arrestato il 13 agosto dello stesso anno), dentro la tomba di un certo Achille Finessi (estraneo) sepolto nel cimitero di Codigoro in provincia di Ferrara. Quasi un anno dopo Maniero si pentì e incominciò lo smantellamento della banda.Dunque i misteri sull’asse Riviera del Brenta-Modena non mancano.

Il patto con i Casalesi. Acclarato ormai che le quattro spedizioni punitive portate a termine dagli uomini di Maniero fra il 24 luglio del 1991 e il 15 gennaio del 1992 (quest’ultima una settimana prima della rapina in pinacoteca: le date sono importanti) furono concordate con il clan che faceva capo su Modena a Giuseppe Caterino (in Emilia in regime di Sorveglianza speciale), dopo il pentimento uscirono anche i nomi. Felice Maniero nella sua confessione fiume parlò di una serie di raid attuati da Giuliano Ferrato, Giulio Maniero, Salvatore Trosa (leader del gruppo dei piovesi), Vincenzo Zampieri e forse Fausto Donà. Salvo poi aggiungere alla lista Paolino Mazzuccato e un Kalashnikov. Parole che non combaciano con quanto dichiarato Giulio Maniero che si autoaccusò di aver gambizzato il biscazziere modenese Paolo Ballei il 29 agosto 1991 («fui io a sparare facendo uso di un pistola calibro 38»), sottolieando che con lui c'erano solo Giuliano Ferrato e Salvatore Trosa. Trio confermato anche dalle parole dello stesso Ferrato e da Andrea Zammattio. Sulla altri raid invece la composizione delle batterie è più incerta. Se Giulio Maniero si autoaccusò di aver sparato con l'M16 contro i muri della bisca del clan De Falco mentre Donà e Zammattio bruciavano le auto e Mazzuccato faceva da “palo”, Paolo Tenderini (del gruppo dei cosiddetti “mestrini”), nell'interrogiatorio reso al pm di allora Antonio Fojadelli, raccontò di essere andato insieme a Paggiarin, Boatto, Causin e Maritan (Silvano, leader del gruppo dei Sandonatesi), in quanto «Silvano ci aveva chiesto di sistemare delle faccende per fare un piacere a Maniero».

Mitragliate sui muri. Ciò che è certo è che in una delle incursioni, il gruppo partito probabilmente da Campolongo Maggiore, si fermò a Chioggia per «provare» l'effetto che faceva l'M16 sui muri. Come bersaglio fu usato l'edificio in costruzione che ora ospita il mercato del pesce. Il viaggio fu fatto a bordo di un'Alfa 164.Il mistero dei quadri. Già, l'Alfa 164. E' proprio attorno a questo modello che girarono le indagini dei carabinieri del Reparto Operativo di Modena che cercarono di scoprire gli autori della rapina delle tele di Modena. Modello che porterà gli inquirenti fino a Padova, per la precisione Camin, in via Molise 24, dove all'epoca viveva Placido Scattolin, ora 72enne, conosciuto dalle forze dell'ordine per reati contro il patrimonio e le truffe (tre anni fa fu arrestato dai carabinieri di Cittadella perché rubava escavatori e li rivendeva i Romania). Persona che non aveva nulla a che fare con la Mala del Brenta. E forse per questo le indagini terminarono a casa sua, senza trovare i veri autori del colpo. Ma per capire come Felice Maniero sia stato astuto a ingarbugliare la matassa bisogna fare un passo indietro. E seguire passo-passo le indagini, che iniziano con l'individuazione dell'auto in fuga.

L’Alfa 164. L'Alfa 164,che alle 18,40 del 23 gennaio sfrecciò contromano in via Vittorio Veneto a Modena davanti a una pattuglia dei vigili che riuscì a memorizzare la targa. Targa che combaciava con un'Alfa 164 rubata tre giorni prima a Ferrara. I carabinieri imboccarono più piste, fra cui quella «austriaca», forse quella giusta ma che si rivelò comunque un vicolo cieco. Il 7 febbraio del 1992, due settimane dopo la rapina, Donato Scarsellato, originario di Chieti, venne arrestato al Brennero perché trovato alla guida di un'Alfa 164 con targa lussemburghese il cui numero di telaio era però quello dell'auto usata dal commando. Si giustificò dicendo che stava portando l'auto a Vienna per conto di Giancarlo Abbati, conosciuto dalle forze dell'ordine e amico Francesco Bazzoffia, a casa del quale vennero ritrovati quattro pneumatici completi di cerchi che appartenevano alla 164 rubata. Seguendo Bazzoffia i militari arrivarono a Camin da Placido Scattolin, con cui Bazzoffia, talvolta collaborava. Ma non andarono oltre. La restituzione dei quadri da parte di Maniero, il 7 dicembre del 1993 (il Guardi e i tre El Greco), fece abbassare la guardia agli inquirenti sul fronte delle indagini. Poi arrivò il pentimento e Maniero fece nomi e cognomi svelando parzialmente i misteri. Pacco e contropacco. Rileggendo i documenti di allora, viene in mente quando Maniero rivendeva ai giostrai i Kalashnikov usati per gli assalti ai blindati, ben sapendo che se i carabinieri glieli avessero trovati, automaticamente, sarebbero stati accusati anche dei colpi. D’altra parte Mala del Brenta e i giostrai in anni di collaborazione criminale si «tirarono» numerosi pacchi a vicenda. Come quella volta che Felice e Giulio Maniero, Paolo Pattarello, Paolino Mazzuccato, Stefano Galletto e Andrea Zammattio fecero un raid punitivo a Bergamo armati fino ai denti in un campo nomadi per convincere i giostrai a restituire diversi milioni di lire che si erano intascati invece che darli agli «slavi» con cui Faccia d'Angelo trafficava in armi. Ma questa è un'altra storia.

(2- fine)