«Riciclava i soldi del clan» indagato un imprenditore modenese
Remo Uccellari, già coinvolto nell’indagine per abusi edilizi a San Dalmazio La ditta è in crisi di liquidità, interviene un presunto prestanome della Camorra
MODENA. Imprese modenesi, prestanome della camorra, “soci occulti” vicini alla 'ndrangheta. Uno scenario complesso quello descritto in un'inchiesta, arrivata agli sgoccioli, della Procura antimafia di Bologna che tira in ballo l'imprenditore modenese Remo Uccellari, coinvolto nell'affaire Serramazzoni con l'ex sindaco Luigi Ralenti per una serie di abusi edilizi a San Dalmazio. Le storie pur sfiorandosi viaggiano su due binari paralleli. Nel filone bolognese l'ipotesi dei magistrati è di riciclaggio: Remo Uccellari, in un momento di difficoltà economica, si sarebbe prestato a riciclare i soldi del potente clan Moccia di Afragola, paesone dell'area Nord di Napoli. Uccellari è lo stesso imprenditore del contestatissimo mega progetto del “gassificatore” da realizzare a San Dalmazio con la società Modena Bionergy. Un vero e proprio inceneritore, secondo i comitati cittadini. L'inchiesta dell'antimafia, iniziata nel 2008, prende forma fra le morbide curve dell'Appennino. Al centro di nuovo il cantiere di San Dalmazio. Lo stesso cantiere di San Dalmazio per il quale l'imprenditore modenese è finito nei guai con l'accusa di abuso edilizio. Una fetta di territorio montano offerto al dio cemento, sul quale è stato realizzato un grosso complesso residenziale fatto di villette prestigiose. Il prossimo passo? La realizzazione del gassificatore, che nell'idea dell'imprenditore dovrebbe fornire energia alle abitazioni.Ma questa è un'altra storia, fatta di ricorsi e battaglie legali, rimasta comunque fuori dall'indagine di Bologna.
I COLLEGAMENTI. A legare Uccellari al clan Moccia due nomi: Giuseppe D'Onghia e Vincenzo Galletta. Il primo è l'appaltatore dei lavori di Casa Grana, con la ditta Lo.Di.Si. Srl. Il secondo è il titolare dell'azienda a cui D'Onghia ha concesso il subappalto. A rendere ancora più intricata la vicenda è la presenza tra gli indagati di un “socio occulto” di D'Onghia: il vignolese d'adozione legato alla ’ndrangheta calabrese Rocco Gioffrè, condannato nel '89 e nel '92 per traffico di stupefacenti insieme a trafficanti turchi, colombiani e delle cosche calabresi. Nei rapporti investigativi inviati alla Procura è definito “soggetto appartenente al “locale” (cosca, ndr) di ’ndrangheta di Seminara (Comune della Piana di Gioia Tauro)”.
Quello che emerge dall'indagine di Bologna è una Joint venture (e non sarebbe la prima volta) tra camorra, 'ndrangheta e imprenditoria modenese. Una storia destinata ad allargarsi e che potrebbe svelare nuovi scenari in provincia e in città.
LE PARENTELE. Giuseppe D' Onghia vive a Mirandola. È il suocero di Alfonso Perrone, il collaboratore di giustizia detto “o Pazzo”, che fino al suo arresto è stato tra i più fedeli collaboratori dei referenti modenesi del clan dei Casalesi.
In un verbale acquisito dalla Procura antimafia di Firenze del 29 giugno 2012 Perrone dichiara: «Ci sono imprese riconducibili a D'Onghia che favorivano il clan Moccia e Rocco Giuffrè e riciclavano per conto di essi». E D'onghia, si legge negli atti, avrebbe ottenuto i lavori di casa Grana a San Dalmazio grazie all'intercessione di Gioffrè. Che al pari di Rocco Antonio Baglio - arrestato nell'inchiesta sul sistema Serra - parla modenese e gestisce un portafoglio di relazioni con il potere locale: conoscono imprenditori, professionisti, masticano il linguaggio della politica.
IL “DEBITO”. «Nel mese di ottobre 2008, a causa di improvvise sopravvenute difficoltà finanziarie, Remo Uccellari non trasferiva i fondi pattuiti -100mila euro - a Giuseppe D'Onghia e questi, pertanto, non era in grado di coprire due assegni da 50 mila euro ciascuno che aveva consegnato il mese precedente a Vincenzo Galletta e che questi aveva già posto all'incasso attraverso la pratica dello sconto bancario.
La circostanza causava il mancato pagamento degli operai e, conseguentemente, il blocco dei lavori nel cantiere». Lo scrivono i detective delle Guardia di finanza nelle loro informative inviate alle Procura.
Vista l'impossibilità per l'imprenditore modenese di reperire in breve tempo i soldi necessari attraverso canali leciti, prima Galletta e poi D'Onghia avrebbero chiesto l'intervento di Michele Petrellese e del socio Ferdinando Sepe, imprenditori edili di Afragola.
Ma chi sono veramente Sepe e Petrellese? Il loro profilo è descritto fagli inquirenti napoletani: «Imprenditori contigui al clan “Moccia” di Afragola». Il potente clan Moccia dal Napoletano si è espanso a Roma e ha piazzato propri uomini in Emilia Romagna.
L’ORGANIZZAZIONE. «Nell'organizzazione ruolo assolutamente preminente lo aveva Angelo Moccia detto Enzo. Tutte le decisioni importanti erano prese da lui … quanto ai fratelli Luigi e Antonio, gli stessi avevano un ruolo subordinato…». Chi comanda a casa Moccia lo racconta ai magistrati partenopei il pentito Andrea Delli Paoli. Negli anni '80, il Clan Moccia contava alleati di peso: Carmine Alfieri, Antonio Bardellino, e Pasquale Galasso. Tutti insieme nella “Nuova Famiglia” in contrapposizione “Nuova camorra organizzata”.
Sepe e Petrellese «si rivelavano referenti economici di esponenti di rilievo del clan camorristico Moccia». Vantano contatti diretti con Gennaro Tuccillo, conosciuto come “zi Santo” e di Vincenzo Raucci, detto “capanera”. Entrambi direttamente «riconducibili al clan napoletano».
Tra gli imprenditori di Afragola, Gioffrè, D'Onghia e Uccellari sarebbe nata una sorta di partnership. Sepe e Petrellese visitano anche il cantiere di Serramazzoni accompagnati dal duo Gioffrè- D'Onghia. Organizzano cene nel ristorante “La locanda del Re” di proprietà dei figli di Rocco Gioffrè. A uno di questi incontri partecipa Uccellari. Tra i presenti pure Domenico Zagari, legatissimo a Gioffrè e titolare di un circolo ricreativo a Rubiera.
La visita di Sepe e Petrellese nel cantieri di Serra, secondo i magistrati di Bologna, rende «evidente la volontà di soggetti riconducibili al Clan Moccia di entrare direttamente nella gestione dell'appalto, per il tramite formale di D'Onghia, Gioffrè e Galletta, sui quali, dopo il trasferimento urgente dei 100 mila euro, hanno il controllo».
“LUI SAPEVA”. Possibile che Uccellari fosse all'oscuro del profilo dei suoi interlocutori? Secondo gli investigatori no. Anzi, «Remo Uccellari è consapevole di essersi rivolto ad un'organizzazione criminale di stampo camorristico». E aggiungono: «Manifesta implicitamente di essere a conoscenza di essersi rivolto ad un'organizzazione criminale di stampo camorristico».
L'arco di tempo su cui si sono concentrate le indagini è il 2008-2009. A fine 2011 il pm aveva chiesto l'arresto per gli indagati, tra cui Uccellari, Gioffrè e D'onghia, ma il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta. E l'indagine è proseguita con il trio a piede libero.
Non sarebbe neppure la prima volta che imprese in odore di camorra abbiano lavorato nei cantieri privati gestiti da Uccellari. Già nel rapporto del 2010 dei Carabinieri di Pavullo inviato alla Procura di Modena venivano segnalata aziende subappaltatrici legate ai boss Casalesi nei cantieri di Casa Grana. Lo stesso cantiere entrato nelle mire dei Moccia e di Gioffrè. Insomma all'appello non manca nessuno.
I PENTITI. A parlare di Rocco Gioffrè e dei comuni interessi con personaggi vicini alla camorra è anche un altro pentito, anche lui un tempo del clan dei Casalesi. In un verbale del '98 Franco di Bona, “Francuccio il professore”, sostiene di aver contattato un tale “Peppe Zecchinetta”, imprenditore attivo nella provincia di Modena per chiedergli 50 milioni di vecchie lire. «Mi presentai come “Francuccio il professore” di Casale, facente parte dell'organizzazione di “Sandokan”, di essere latitante e quindi in difficoltà economica. Dopo di che gli chiesi una “contribuzione” di 50 milioni».
L’INCONTRO. Successivamente alla richiesta del pizzo, a Di Bona viene comunicato che “Zecchinetta” è compare di Rocco Gioffrè e che avrebbe intenzione di incontrarlo.
«Io aderii all'incontro (con Gioffrè, ndr) ed in effetti ebbi a parlare con Rocco Gioffrè di Vignola, di origine calabrese, all'interno del ristorante “Il Gabbiano”. Gioffrè mi rappresentò di essere lui l'effettivo proprietario dell'impresa edilizia del Peppe Zecchinetta e che si poteva trovare un accordo, nel senso che anzichè pagare i 50 milioni, avrebbero dato dei lavori di costruzione al Salvatore Loreto (conoscenza comune tra Di Bona e Gioffrè) il cui ricavato chiaramente sarebbe tornato a mio favore. Io aderii all'accordo e in effetti Loreto ebbe ad effettuare dei lavori di costruzione. Non ebbi modo di ricavare i proventi perché nel frattempo fui arrestato».
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