Già 150 persone in cura e i matrimoni saltano
«È malato chi non riesce più a smettere di giocare, non demonizziamo l’attività ricreativa»
Andare in edicola e comprare i giornali specializzati oppure consultare freneticamente i siti internet che danno in diretta i risultati sportivi di tutto il mondo non possono essere considerati segnali allarmanti di ludopatia. L’analisi è di Massimo Bigarelli, direttore del Servizio Dipendenze Patologiche Area Nord dell’Ausl. È lui che coordina gli interventi e i gruppi di cura per i malati, siano essi fumatori, alcolisti e ora anche giocatori d’azzardo.
«Stiamo seguendo circa 150 persone - spiega - ma è necessario fare una premessa. Da appena 20 anni la comunità scientifica ha considerato il gioco una patologia curabile, prima veniva rubricato come un semplice vizio. Ed invece le conseguenze sono devastanti. Ho visto matrimoni saltare a causa dei problemi connessi con le scommesse visto che il marito non riusciva a staccarsi dalle sale giochi, trascurando lavoro, famiglia e dissipando ingenti patrimoni. Abbiamo avuto pazienti che in poco tempo sono riusciti a “bruciare” 40-50mila euro».
C’è anche un identikit del giocatore patologico: uomo, tra i 40 ed i 70 anni, ma la realtà giovanile è in crescita e si dedica alle scommesse on-line. In sostanza mentre la persona di mezza età continua a privilegiare la socialità e quindi è portato a frequentare le sale, quasi fossero un nuovo punto aggregativo in stile “bar 2.0”, il ragazzo tende a fare tutto da casa, applicando l’ormai straconosciuto stile di vita digitale.
Ma allora come si può autoriconoscersi come “malati di gioco”? Bigarelli è molto deciso nell’individuare i campanelli d’allarme: «Se una persona non è più in grado di fermarsi allora deve preoccuparsi. Si può fare il parallelismo con l’alcool: un bicchiere di vino è uno sfizio, ma se si vive soltanto per trovare un momento libero per bere allora qualcosa non torna. Lo spazio mentale del malato è completamente occupato dalla necessità di trovare una sala giochi e di pensare alle strategie di applicare».
L’analisi del medico, però, tende a non demonizzare il gioco. «Criminalizzare un’attività ricreativa sarebbe l’errore più grave. Chi scommette non è un malato. È un modo come un altro per svagarsi. Certo, più aumenta l’offerta più il rischio della patologia cresce. È evidente che più sale scommesse aprono e maggiore possono essere i timori. Non a caso l’Anci ha proposto di ridurre le sale, finora i sindaci non hanno poteri di autorizzazioni che spettano ad altri organi dello Stato. Almeno è vietato l’apertura nei pressi dei luoghi sensibili come ad esempio le scuole». (f.d.)