Gli studenti nella fabbrica di morte
Quarto giorno nel campo base del lager: visita ai luoghi di lavoro massacrante fino al Blocco 11, il luogo dello sterminio
Auschwitz, parte seconda. Giunto al suo quarto giorno, il Viaggio della Memoria conduce i suoi partecipanti verso uno dei suoi momenti più toccanti. L’ingresso, cioè nel campo base. Quello, per intenderci, al cui ingresso si trova la famosa scritta “Arbeit Macht Frei”. Auschwitz I è infatti la prima struttura aperta dai nazisti nell’area, ricavata da un’ex caserma polacca. Come spiega Carlo Saletti - storico che ad Auschwitz-Birkenau e più in generale a tutta questa regione concentrazionaria ha dedicato pure un libro-giuda, firmato anche da Frediano Sessi - «questa è la parte museale, ricavata nel sito storico, che è rimasto molto simile a come lasciato dai tedeschi nel 1945». In pratica è un museo, a tutti gli effetti. All’interno dei vari blocchi, in gran parte visitabili, si trovano mappe, cartelli esplicativi e ricostruzioni di ambienti. Ma anche foto d’epoca, effetti personali e metri cubi di capelli, scarpe e occhiali appartenuti alle vittime. Un particolare, quest’ultimo, tra i più toccanti dell’intera visita. Un’impostazione che però, secondo Saletti, rischia di trasformarsi in una «semplice cartolina» per turisti.
È per questo e altri motivi che raduna alcuni studenti intorno ad un piccolo rettangolo d’acqua. Sul cartello di riferimento c’è scritto che, 70 anni fa, era una vasca da cui attingere in caso d’incendio. Ma ai bordi si trovano alcuni trampolini. In realtà, secondo Saletti: «Questa era una piscina costruita ad uso delle guardie del campo. Non capisco perché le guide si ostinino a non spiegare questa realtà, facendo in questo modo il gioco dei negazionisti, che trovano così un appiglio su cui basare le proprie congetture».
Cartolina o no, la visita è comunque toccante. Come, e forse anche più, di Birkenau. Certo, la vastità dell’immensa distesa di baracche di fronte a cui i partecipanti si sono trovati giovedì non poteva non colpire. Ma qui, nel campo base, c’è un particolare in più: ci sono le storie, l’umanità delle vittime, con cui meglio ci si riesce a identificare grazie a oggetti e foto. Proprio le immagini impressionano più di ogni altra cosa.
Quelle scattate dai sovietici nei giorni della liberazione, che ritraggono veri e propri “scheletri in vita”. Ma anche quelle prodotte dai nazisti stessi durante le “selezioni”, capaci di immortalare la paura e la disperazione dei deportati. Non c’è più, si diceva, l’impatto con la disarmante grandezza della “fabbrica della morte”. Auschwitz I riusciva a contenere, secondo le stime, «appena 15-20mila persone». Ma alcuni luoghi, simbolici e non, rimangono comunque toccanti. Dall’ingresso, sotto quella scritta, “Il lavoro rende liberi”, che “risalta” in tutta la sua tragicità, al muro delle esecuzioni, sempre adornato da corone e fiori in ricordo delle vittime. Passando per le diverse esposizioni storiche e i padiglioni internazionali, dove gli stati interessati hanno ricostruito le loro storie di deportazione. Giungendo fino al famigerato Blocco 11, il blocco della morte. La prigione dell’intero complesso concentrazionario, dove venivano rinchiusi gli internati accusati di attività clandestine. La stessa prigione nella quale venivano condotti esperimenti disumani: lo Zyklon B, l'agente successivamente utilizzato dai nazisti nella loro “soluzione finale”, venne “provato” per la prima volta nei sotterranei di questo blocco, su 850 cavie umane scelte tra prigionieri sovietici e polacchi.
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