La lotta alla povertà missione senza risorse
Alla Fondazione Gorrieri l’analisi di Raffaele Tangorra del ministero del Lavoro In due anni le condizioni di “deprivazione severa” sono passate dal 7 al 15%
«Per il prossimo anno la cifra per le politiche sociali territoriali attualmente è pari a zero». Una frase preoccupante, che giunge dallo stesso ministero del Lavoro. Raffaele Tangorra, direttore generale per l’inclusione e le politiche sociali del dicastero, ha delineato a Palazzo Europa una «situazione di emergenza, in cui è in discussione l’esistenza stessa dell’azione pubblica».
Intanto, il numero delle persone che vivono una situazione di “deprivazione severa” è passato dal 7% al 15% della popolazione in due anni, dal 2010 al 2012.
Tangorra è intervenuto durante “Quali politiche per contrastare povertà e diseguaglianze?”, ultimo incontro del ciclo organizzato dalla Fondazione Gorrieri.
FANALINO D’EUROPA. Tangorra ha iniziato la sua analisi con un raffronto: quale percentuale del Pil dedica il nostro Paese ai benefit sociali rispetto all’Unione Europea a 27. L’Italia è in testa solo per le spese dedicate alla vecchiaia: oltre il 16% del Prodotto interno lordo contro poco più del 12%. In media, la Ue fa più per salute, disabilità e famiglia. La differenza diventa ben maggiore quando si tratta della disoccupazione, in cui in Italia si fa meno della metà dell’Europa. Per le politiche contro povertà, esclusione sociale e a favore della casa, il gap è massimo. Nel resto dell’Unione Europea si fa mediamente dieci volte in più di quanto non si faccia nel nostro Paese. «In Italia si fa nulla o quasi. Credo che ci sia poco margine per coprire la frontiera più espansiva rispetto alla lotta alla povertà. È difficile agire sull’unico campo in cui si potrebbe perché veniamo da vent’anni di riforme delle pensioni e il settore non è più stressabile. Oggi dobbiamo pensare come garantirla. Condivisibile tagliare orizzontalmente su tutti i redditi. Servono sacrifici per ridistribuire».
VENTUNO “ITALIE”. Finora si è parlato del nostro Paese come un’entità unica. Così non è in Italia, dove ci sono ventuno differenti modelli di welfare. «Storicamente c’è un welfare localistico. In Calabria c’è il valore più basso con circa 25 euro pro capite, il massimo è a Trento con 304. Non si fa riferimento solo al contrasto della povertà, ma al sistema dei servizi: la povertà è multidimensionale. In Italia l’assistenza dipende dal posto in cui si è nati; poi in tutto questo è stata fatta la riforma federalista, che tende a cristallizzare le differenze piuttosto che unire il Paese. È quasi impossibile definire così i livelli essenziali delle prestazioni». A livello nazionale, la freccia va verso il basso. «Fino al 2007 c’era circa un miliardo di euro per il fondo delle politiche sociali. Poi si è aggiunto il fondo per le non autosufficienze. Negli ultimi anni i fondi si sono sostanzialmente azzerati. Ogni anno nella legge di stabilità non ci sono strumenti che garantiscano le politiche sociali. Negli ultimi due i governi Monti e Letta hanno messo una toppa con circa 600 milioni di euro, ma nel 2015 il fondo è zero».
SFIDE PER IL FUTURO. Durante l’incontro Maria Cecilia Guerra, ex viceministro del Lavoro, ha rilanciato il progetto “social card”. Un modello sperimentale su dodici città italiane, avviato «solo per le famiglie con minori, di adulti che hanno perso il lavoro in tre anni o con reddito sotto i 4mila euro». Se funziona, allargare l’esperienza non è un problema, «se ci sono i soldi». «Se per iniziare un programma nazionale contro la povertà - ha concluso Paolo Bosi, economista del Capp di Modena - nessuno comincerebbe subito, in modo razionale, con due miliardi di euro, perché non prendere i dieci miliardi per la manovra da ottanta euro proposta da Renzi?».