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«È sempre rimasto un giovane prete»

«È sempre rimasto un giovane prete»

Il segretario personale: «Si mosse nell’apparente paradosso del conservatorismo unito all’evangelica apertura al nuovo»

23 aprile 2014
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«È stato un testimone di Cristo in tutta la sua vita, fino a quando ci lasciò non come un anziano, ma come un bambino di 81 anni e sei mesi che dal suo letto, sentendo il calore della gente in piazza San Pietro, ripeteva come in una personalissima preghiera “io li amo e loro mi amano, e amo Roma anche per questo”. Ma non è giusto definirlo papa buono, perché significherebbe metterlo in contrapposizione con altri papi». Il beato Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, nel ricordo dello storico segretario personale, Loris Francesco Capovilla, elevato alla dignità cardinalizia da papa Francesco nel suo primo Concistoro, lo scorso febbraio. Riconoscimento di gran significato per una persona di 98 anni qual è don Capovilla (guai a chiamarlo eminenza o signor cardinale, s’arrabbierebbe), inserito nel collegio cardinalizio come memoria storica del pontefice del Concilio Vaticano II.

Eminenza, cosa ha provato quando ha saputo che Giovanni XXIII entra nella lunga schiera dei santi?

«Per favore non chiamatemi eminenza. Sono e sarò sempre don Loris. Alla notizia della santificazione mi sono raccolto in preghiera e sono stato a lungo immerso nel silenzio. Sono contentissimo, ma non per me, per lui, per papa Giovanni che così torna a riprendere il suo posto nel cuore della gente, anche se immagino che non sia mai stato dimenticato da nessuno».

Arrivare alla santità è anche premiare un intero pontificato. Non è vero?

«Non ho mai voluto parlare della beatificazione di papa Giovanni. E tanto meno lo faccio ora con la santificazione per un senso di rispetto e pudore. Preferisco, invece, pensare che il riconoscimento gli sia stato assegnato per la sua lunga testimonianza di servitore della Chiesa, un servizio fatto col cuore e con l’animo in tutta la sua vita sempre con la dolcezza del padre, col sorriso, con quegli occhi che in qualsiasi momento esprimevano dolcezza, comprensione, amore. Lui si faceva capire con poche parole, con espressioni semplici, con quegli occhi che esprimevano sempre dolcezza e curiosità tipiche dei bambini. Non si spiega diversamente il successo che ebbe quel suo discorso alla Luna, la sera dell’inaugurazione del Concilio, quando invitò quanti lo ascoltavano di fare una carezza ai bambini dicendo loro che era la carezza del papa».

Come ricorda papa Giovanni XXIII?

«Pur avendo contribuito ad aprire la Chiesa al mondo contemporaneo col Concilio, per me è stato un prete all’antica, legatissimo al terreno solido della rivelazione cristiana, che sempre diede tono e slancio al suo servizio. Volle essere il prete segnato dalla familiarità con Cristo, e di null’altro preoccupato se non del nome, del regno e della volontà di Dio».

Qual è il segreto di tanto amore per Giovanni XXIII?

«Può sembrare forse inconcepibile, ma il segreto del successo di Roncalli sta nella matrice tradizionale, e dinamica allo stesso tempo, della sua formazione e cultura ecclesiastica, nell’apparente paradosso tra severo conservatorismo e umana ed evangelica apertura al nuovo».

Dunque, un grande papa, coerente e semplice, innamorato di Cristo e dell’uomo, specie il più sofferente. Una prova?

«Basti pensare che da chierico appena quattordicenne inizià a scrivere il suo Giornale dell’anima, raccontando pensieri personali, confessioni, preghiere quotidiane, continuando a scriverlo sino a 81 anni, senza mutare temperamento e costume. Roncalli rimase lo stesso prete della giovinezza, con quella caratteristica e mai smentita coerenza di pensiero e di azione».

Eppure per tutti è stato, è e sempre sarà il papa buono.

«Per favore, non chiamatelo “papa buono”. È da oltre mezzo secolo che contesto la definizione. Non perché Roncalli non sia stato buono. Tutt’altro. L’appellativo viene usato in modo improprio, quasi per mettere Giovanni XXIII in contrapposizione con chi lo ha preceduto e seguito, in particolare Pio XII e Paolo VI, che non erano mica “cattivi”...».

Ma come si arrivò a chiamarlo papa buono?

«È una definizione nata dai romani. 7 marzo 1963: era prevista una visita alla parrocchia di San Tarcisio. C’era la campagna elettorale e i parrocchiani, col placet dei partiti, decisero di coprire i manifesti con teli bianchi e la scritta “Evviva il papa buono!”. Quell’aggettivo restò».

Lei però è contrario.

«I giornali, soprattutto quelli di destra, usavano questo appellativo in realtà per mortificare il suo pontificato. Invece, sappiamo che è stato molto importante per la Chiesa e per il mondo, per il Concilio Vaticano II, per la causa della pace e anche per il suo stile. Papa Francesco ha una capacità di vicinanza alle persone che ricorda quella di Roncalli». (o.l.r.)

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