Gazzetta di Modena

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«Rapita da Al-Qaeda» Susan racconta la sua odissea in Siria

di Beatrice Ferrari
«Rapita da Al-Qaeda» Susan racconta la sua odissea in Siria

La Dabbous ha studiato a Modena e qui abita sua sorella «Quando mi venne chiesto: qual è la tua morte preferita?»

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Il 3 aprile 2013 Susan Dabbous, giornalista freelance di origini italo-siriane, veniva rapita in Siria insieme ad altri tre reporter italiani, da un gruppo legato ad al-Qaeda. Oggi racconta questa drammatica esperienza attraverso il libro "Come vuoi morire?" ((Castelvecchi editore) che è stato «scritto di getto subito dopo la liberazione perché sentivo il bisogno di distaccarmi da ciò che mi era accaduto - spiega la giornalista - e con grande piacere voglio raccontare il mio libro qui a Modena». L’incontro si è svolto alla libreria Feltrinelli, condotto dal giornalista Francesco Zarzana.

Modena è una città piena di affetti per Susan Dabbous, dove ha frequentato il primo anno di liceo al San Carlo e dove risiede anche la sorella. La cultura illuminista, proprio insegnata dalla scuola modenese le ha sempre dato il dono di mettere tutto in dubbio, ed è proprio questo che l'ha portata a fare la reporter e raccontare ciò che accade in aree molto spesso dimenticate, come la Siria.

Un anno fa Susan si trovava in un villaggio abbandonato, Ghassanieh, con tre reporter della Rai, per girare delle immagini di una chiesta sconsacrata e sfregiata dall'islam. Ma proprio sotto quel silenzio sono stati arrestati da Jabhat al-Nusra, che la giornalista conosceva perché «avevo scritto di loro poco tempo prima. E proprio perché sapevo chi erano, sapevo anche che quello che stava avvenendo non era un semplice arresto, ma un rapimento».

Dopo un interrogatorio durato ore in una fantomatica caserma, i reporter italiani vengono portati in un altro posto, come prigionieri, dove però Susan non vi resterà a lungo. Infatti il fatto di essere una donna, di origini italo-siriane, aveva da subito destato sospetti nei suoi rapitori, che l'accusavano di essere una spia. «Ciò che mi ha scagionato è stato il fatto che non sapevo parlare bene l'arabo e quindi non potevo essere una spia», continua la reporter.

La Dabbous, è stata allontanata dai suoi colleghi e portata in un appartamento con una donna, Miriam, moglie di uno jihadista. «È stata una prigionia anomala, perché ho potuto vivere in condizioni agiate: avevo da mangiare, mi potevo lavare e parlare. Miriam è stata la mia carceriera, una ragazza di appena vent'anni, che volontariamente ha deciso di seguire il marito in questa guerra».

Susan ha potuto osservare aspetti della jihad rosa che al mondo sono inaccessibili, soprattutto ai giornalisti: ha potuto osservare momenti di intimità tra Miriam e il marito, momenti di litigio, scene quotidiane in casa. Ma la cosa che ha visto la Dabbous con il suo rapimento è che l'islam per cui si combatte non è l'islam con il quale è cresciuta da bambina (la sua famiglia é praticante). «Era un islam superstizioso quello dei miei rapitori. Venivo rimproverata quando toccavo il cibo con la mano sinistra, cosa che in casa mia si è sempre fatto. Mi era stato detto che le donne non potevano vedersi nude, quando invece d'estate da piccola passavo pomeriggi all'hammam con le mie cugine. Era un'islam diverso, chiuso».

Una prigionia strana quella di Susan, che l'ha portata a confrontassi con la morte in due momenti ben distinti. Quello più forte è si presentato sotto forma di domanda, quando la sua carceriera le ha chiesto “Qual è la tua morte preferita?”. Un quesito cui Susan ha tentato di rispondere con sincerità. Dopo undici giorni, a seguito di un accordo segreto con i servizi segreti italiani, la prigionia giunge al termine. Susan ha pensato molto alla suo mestiere, quello di freelance, che diventa ancor più pericoloso perché non ha una testata di riferimento, ma è ripartita di nuovo per il Libano, dopo un breve periodo in Italia.