Gazzetta di Modena

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SOSPETTA EBOLA

L’incubo è finito, Elisa è tornata a casa

L’incubo è finito, Elisa è tornata a casa

I medici dell’ospedale di Istanbul, dove era ricoverata in quarantena, hanno escluso l’Ebola e anche la malaria

27 agosto 2014
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Elisa ha lasciato l'ospedale di Haseki di Istanbul dove era isolata in quarantena dal 20 agosto e ora è a casa.

«Non ha l'Ebola, sta bene. Gli esperti hanno determinato al termine di visite e esami approfonditi che la paziente non ha l'Ebola, è in buono stato di salute ed è stata dimessa alle 12». Erano le 11 italiane di ieri: Elisa ha nuovamente raggiunto l’aeroporto di Istanbul e assime al suo fidanzato Giovani è tornata a casa. Ieri mattina il ministero della salute turco aveva diffuso una nota stampa che tutti attendevano per suggellare la fine dell’avventura vissuta dalla 23enne che ieri sera ha riabbracciato i genitori. L’Arcidiocesi, anch’essa con una nota, ha affermato che non solo i test clinici hanno escluso la terribile Ebola, ma anche la malaria. Un lietissimo fine dunque: è probabile dunque che a causare quel picco di febbre e vomito durante il volo di rientro in Italia, sintomi che hanno fatto scattare il protocollo di emergenza e il relativo ricovero in quarantena, sia stato un banale quanto malefico virus gastrointestinale. In Africa, ad Abéché in Ciad, da dove era rientrata Elisa dopo la missione umanitaria assieme a Giovanni (il suo fidanzato che non l’ha lasciata sola a Istanbul) e a una decina di ragazzi reclutati dalle parrocchie modenesi, rimangono ancora due diciannovenni. Non erano partiti perché malati di malaria: sono stati curati in ospedale e dai padri Comboniani. Rientreranno a fine mese .

«La partecipazione a questi campi in Africa- scrive l’Arcidiocesi - libera, scelta dai giovani, preparata nel corso dell'anno precedente, supportata ed accompagnata da persone esperte, è un'esperienza che arricchisce il visitatore e le comunità che accolgono, una vera esperienza formativa».

Il senso del viaggio, dalla voce di uno dei partecipanti: «So che scrivere due righe a caldo è sempre un rischio. Però mi dispiacerebbe anche che questa bufera diplomatica - mediatica mi facesse dimenticare, o anche solo mettere da parte, quello che questo viaggio è stato veramente. C'è una parola in francese "brassage", che non conosce traduzione letterale in italiano; ma per farci capire il senso, i ciaddiani stringevano le mani intrecciando le dita fra loro ed allora ci era chiaro: eravamo lì per mischiarci, per legarci, per farci coinvolgere. Quindi ci abbiamo provato, grazie ad un' irripetibile opportunità che ci è stata data: vivere ventiquattro ore al giorno insieme a loro, come loro. Dormire nei locali dove spesso vengono ospitati i profughi del non lontano Darfur ci ha fatto pensare alle nostre comode camere da letto; cucinare e mangiare cinque varietà di cibo differente in quattro settimane ci ha ricordato l'abbondanza sulle nostre tavole; centellinare l'acqua nel secchio per fare la doccia ci ha ricordato le vasche da bagno. E sì, ci siamo anche ammalati. Ma non c'è stato un attimo in cui abbiamo pensato “che sfortunati che siamo!”. Piuttosto abbiamo ringraziato per l'ennesima volta Dio, che per l'ennesima volta ci dava la possibiltà di vivere dignitosamente anche nella malattia, grazie ai soldi che ci permettevano di pagare le cure. Per ora quello che sappiamo fare è ripetere questo grazie, consapevoli che non basterà mai. E cercare di non dimenticare la gioia delle comunità in festa, dei corpi che danzano, delle voci che sempre ci hanno detto “ça va aller, on est ensemble!" "Andrà tutto bene, siamo insieme!". Senza polemiche, senza accuse al nostro mondo, ma grati a chi ci ha concesso di partire e di tornare così ricchi».