«Il Comune mi renda quel monumento sulla tomba di Gina»
Franco Ansaloni, ex saldatore, rivuole piramide e statua che costruì per la Ferrari, passeggiatrice morta nel 2000
Su quella tomba ha portato per quattordici anni fiori e ricordi, sin da quando, nel giugno del 2000, riuscì a costruirle la tomba con tanto di monumento. E oggi, arrivato la data dell’esumazione, il suo ammiratore non si dà pace per la fine che potrebbe fare la statuina della Gina, il suo capolavoro che rappresenta il falso pudore. Al cimitero di S. Cataldo quell’inno alla gloria terrena non stona tra le lapidi che ricordano tante virtù degli scomparsi.
«Sì, gliel’ho fatta io la scritta che lei era più bella di una macchina da corsa. Quella donna era brava e onesta anche se la gente pensava il contrario per il mestiere che faceva»: Franco Ansaloni, classe 1935, ha gli occhi lucidi mentre la ricorda tra i vialetti e pulisce il suo “monumento”. Lo ha costruito con le sue mani, abituato a piegare il metallo da sempre, fabbro da quando era ragazzo sull’incudine e poi una vita da saldatore con la passione per la lirica. E da quattordici anni una piramide metallica blu, con la foto di Gina Ferrari, ricorda ai passanti la vita di una modenese sospesa tra cronaca e leggenda, da viva come da morta.
«Capisco che la tomba debbano tirarla via ma quelle cose le ho fatte per lei - ripete - Ora ho chiesto al Comune se possono restituirmele anzichè buttare tutto in discarica».
Lei, passeggiatrice a orari fissi tra via Fontanelli e via Montecuccoli, non conobbe mai il viale del tramonto. Anche negli ultimi anni in cui esercitava, sempre addosso la pelliccia leopardata che l’aveva resa celebre trent’anni prima nelle foto di Franco Vaccari, sorrideva ai passanti di sesso maschile, ammiccante anche se non era più il simbolo del sesso.
Eppure, quando si sparse la notizia della sua morte in una gelida mattina del gennaio 2000, non furono pochi a commuoversi. Per tutti era la Gina e basta, non serviva il suo cognome per distinguerla dalle colleghe.
Anche qualche donna aggrottò la fronte con malinconia. Forse comprensibilmente. Se i mariti andavano dalla Gina, le mogli modenesi potevano stare tranquille: sapevano che lei li rimandava sempre a casa, in famiglia: niente fughe d’amore e colpi di testa.
Gina era la garanzia dell’ordine costituito nel disordine nascosto dei sentimenti, non rubava l’uomo a nessuno. Si sussurrava che avesse avuto un marito e una figlia, poi emigrati in un’altra città del Nord quando il suo mestiere divenne di pubblico dominio; il fatto che in passato fosse stata anche lei mamma le toglieva il marchio di reietta. Negli anni del boom, dell’Italietta ancora clericale prima che cattolica, benpensante e malpraticante, quella signorina, sfacciatamente bella e curata, ambita dai più ricchi, dava fastidio anche a sinistra.
«La legge che chiudeva le case chiuse - ricorda Claudio Camola, altro appassionato estimatore e amico della Gina - era stata approvata nel settembre del 1957 ed entrò in vigore a febbraio dell’anno successivo. Modena fu la prima a chiudere le case di piacere in Italia e Reggio l’ultima: potete immaginare il pendolarismo».
In quegli anni in cui nacquero le storielle sui modenesi in trasferta oltre Secchia per le marchette, a poca distanza dalla Ghirlandina le “signorine” si mettevano in proprio;cominciavano a battere il marciapiede sapendo che per legge l’Italia ignorava la prostituzione.
Nessuna regola e quindi interpretazioni creative, subito sfruttate dalla Gina e alcune sue colleghe che si organizzarono in casa. Lei comprò un appartamento in via Emilia est dalle parti della ferrovia piccola, in una casa oggi abbattuta per far posto a un condominio, e cominciò ad esercitare la professione. Il suo boudoir divenne persino celebre quando le immagini di Franco Vaccari, praticamente coetaneo di Ansaloni, vennero esposte in mostra. Al centro c’era sempre lei, che giocava con la sua pettinatura alla Marylin Monroe e gli specchi. «Foto d’arte» sentenziò compiaciuta la giuria che gli diede il primo premio e il viatico per una luminosa carriera di fotografo.
«Regina del sesso? - si chiede oggi Ansaloni a cui l’età non ha fatto dimenticare lo struggimento per gli anni migliori - La Gina era una che sapeva il fatto suo e non campava a spese degli altri. Io da bambino ero il figlio del fattore ai Tre Olmi e lei veniva da noi a comprare il latte; avevo 9 anni e lei 16, ma era una bomba. Mi nascondevo nella stalla per vederle le mutandine quando scendeva dalla bici e lei mi sgridava ridendo. Era il 1944, poi l’ho rivista vent’anni dopo quando si era organizzata con la macchina e tutto il resto. Subito non mi riconobbe, ma è bastato ricordare i Tre Olmi e lei mi ha invitato a casa sua a fine settimana, quando non lavorava.
Arrivai con dei fiori e del gelato, diventammo amici per anni. Amanti? Ma no, mai. Lei era troppo indipendente e poi un suo ex moroso in galera le aveva bruciato milioni per farsi mantenere e pagare l’avvocato. No, qualche volta uscivamo a cena, qualche volta siamo finiti a letto a ma ognuno stava nel suo. Le sono stato vicino sino agli ultimi anni. Per questo ho voluto ricordarla con un monumento che vorrei sistemare in un altro posto. La Gina non merita di essere dimenticata». Già, la storia della sua vita sembra una sceneggiatura scritta apposta per Tinto Brass.