Gazzetta di Modena

Modena

Festival Filosofia 2015

Tullio Gregory e la grande cucina di Modena: «La tradizione va rispettata o morirà»

di Carlo Gregori
Il filosofo Tullio Gregory
Il filosofo Tullio Gregory

Intervista a Tullio Gregory, grande filosofo e appassionato gourmet, sulla tradizione gastronomica: «Modena è grande perché nei secoli ha tramandato tutta la tradizione, sia la cucina per i ricchi che quella per i poveri. Rivisitare i piatti è rischioso. E se chiedo il bollito non voglio concetti, ma un carrello»

22 settembre 2015
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MODENA «I cuochi stellati? Non li frequento molto, ma è determinante conoscere questa realtà. Cosa significa però “rivisitare” un piatto tradizionale? Spesso vuol dire alleggerirlo, renderlo più bello, semplificarlo. Io credo invece che “il” gnocco fritto vada fritto nello strutto. E che se voglio cercare “il bello” vado al museo, non al ristorante. A tavola deve valere un rispetto per la tradizione culinaria trasmessa. Se chiedo il bollito non voglio il piatto che richiama concetti o fasi di carni bollite, ma un carrello dei bolliticon testina, coda, muscoli, lingua, cappone, gallina».

Tullio Gregory, celebre filosofo e appassionato gourmet, è un tradizionalista quando si parla di cucina, ma a modo suo e, come vedremo, a ragion veduta. Per il Festival della Filosofia ha sempre promosso gli incontri tra chef modenesi e filosofi in cerca di percorsi gastronomici legati all'argomento dell'anno.

Professore, il tema eredità che importanza ha in cucina soprattutto a Modena?

«A tavola si vive un processo di civiltà che è cultura ed è stato così dal Simposio di Platone e dall'Ultima Cena in poi. La tavola è il luogo di tolleranza per eccellenza, il luogo dove si parla liberamente e trionfa la Ragione. È anche un punto di incontro. Oggi tutto questo rischia di sparire. Abbiamo il fast food, mentre scompare il rito dello stare a tavola in famiglia con genitori e figli che parlano della giornata trascorsa. Oggi spesso vediamo a tavola gruppi di persone sole chine su tablet e smart phone mentre la tv è accesa. Una solitudine “social”».

Come nasce allora la tradizione gastronomica?

«In cucina. La civiltà della tavola è sempre trasmessa dal “modo di fare”, dalle tecniche e dal sapere che ci sono intorno a una ricetta e a un piatto. La grande civiltà emiliana, della quale Modena è una delle principali espressioni, ha trasmesso per secoli gesti e tecniche precisi. Stanno scomparendo, certo, ma noi cerchiamo di restituirli. Per questo ogni maggio ci incontriamo con gli chef modenesi».

Cosa significa perdere un piatto?

«Lo zampetto di maiale, i calzagatti, il cotechino in galera, lo stracotto di somaro, il grande fritto... Questi sono piatti modenesi che hanno rischiato di essere persi perché nessuno più li faceva. Sono piatti che venivano preparati attraverso il “modo di fare”, si imparavano guardano altri farli. Poi c'erano i ricettari. Da quello di Vincenzo Tanara del 1644 sui centouno modi di preparare il maiale a oggi, i manuali sono di fatto dei paradigmi che spiegano il “come si fa”. La tradizione esiste solo se trasmessa e ripetuta dal “modo di fare”. Se non avviene, i piatti si perdono. Oggi non riusciremo mai a preparare piatti antichi o medievali, come gli stranieri non riescono a cuocere la pasta come noi, per il semplice fatto che questa tradizione si è interrotta o non c'è proprio. E non c'è perché non c'è la pratica».

La cucina tradizionale è entrata in crisi nel Dopoguerra con l'occupazione femminile, l’emancipazione e il rifiuto dei compiti tradizionali...

«Vero. È stato il maschio, in un certo senso, a impegnarsi nel salvataggio della tradizione culinaria, in questi ultimi decenni. Una parte dei maschi, è chiaro, perché i tempi veloci e i piatti da fare in fretta dettano legge. Io invece credo che sia cruciale salvare la tradizione del “modo di fare”. Se il sabato e la domenica si restasse a casa a cucinare insieme anche per i pasti di altri giorni, avverrebbe una straordinaria riscoperta dello stare insieme e la cucina aumenterebbe di gusto e qualità».

Qual'è allora l'elemento che rende la cucina modenese così importante?

«La sua storia. La sopravvivenza di un intero corpus di ricette e piatti, per i ricchi e per i poveri. La sopravvivenza di piatti di pesce autentici come il baccalà e l'anguilla. Il maiale ha una storia antica qui, risale ai longobardi. Per secoli, come noto, si sono macellate le parti nobili e quelle popolari, senza buttare via niente. Tutto questo è arrivato fino a noi. Questa è la tradizione modenese».

C’è un canone modenese?

«No, non esistono più canoni e neanche punti di riferimento. La stessa etichetta a tavola oggi è malconcia, se non è abbandonata. Non esiste neanche il purismo in cucina. Esistono invece un amore più o meno forte per la tradizione o il desiderio di novità. Resta però il rischio della rinuncia alla tradizione. Oggi chi fa le lunghe cotture, le salse?»

Quindi tempi rapidi e innovazione rischiano di mutilare questa tradizione.

«E il rischio dell'innovazione è di non capire cos'hai nel piatto. Devi riconoscere il piatto. Dev'essere buono, non bello. Le porzioni non possono essere minuscole. Il parametro del gusto non può essere un assaggino. Oggi tutto è ridotto a piccole porzioni. In quale ristorante si mette al centro della tavola un'intera arista di maiale ?»