Convento di Fanano: preghiere e cucina Tre suore custodi di antichi misteri
Qui visse Diomira cui sono attribuiti miracoli e si produce un croccante unico e brevettato
MODENA. «Quando Suor Diomira arrivò qui nel 1730, l'improvviso rintocco delle campane colse tutti di sorpresa. Suonavano a festa. Da sole, senza alcun intervento umano. Diomira era una mistica, una santa. Poco dopo la sua morte, una sorella dell'ordine delle Cappuccine si ammalò in modo grave. Ormai in fin di vita, la vestirono con una camicia da notte indossata in passato dalla venerabile. In men che non si dica la suora guarì. Fu lei stessa ad aprire la porta al dottore che, convinto di trovarla moribonda, rimase basito».
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Suor Adriana conosce il mondo. Ha vissuto 25 anni in Etiopia - «la missione è un'avventura d'amore» - è pratica, diretta, empatica e molto acuta. Nel silenzio di questi luoghi si viene rapiti dal suo quieto carisma che quasi commuove e un po’, persino, confonde. Dopo settanta chilometri di curve, da Modena a Fanano, nel paesaggio lussurreggiante di inizio primavera, si arriva davanti all'uscio del monastero fondato agli inizi del XVIII secolo da don Giovanni Battista Lolli.
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A ricevere i visitatori è Suor Fortunata, madre superiora del convento, che sulle mani ha piccole “stigmate” che si affretta a spiegare. «È poca cosa… - si schermisce gentile - Sono i segni lasciati da qualche goccia di zucchero incandescente. Quando cola brucia da morire». Già, perché qui, tra i muri di questo convento, si produce un croccante che prende la forma della campana di Pasqua piuttosto che dell’albero di Natale e che è una vera delizia per il palato. Sorride Suor Fortunata. Le visite al monastero con la sua bella chiesa, il chiostro da urlo e le tre cappelle del 1800, sono assai gradite. Poi però, quando la curiosità diventa insistente e tocca il limite consentito, il gaudio cede il passo alla prudenza. Per quanto la tradizione si tramandi da secoli e certo non in silenzio, qui il croccante mantiene infatti il suo cuore segreto. Se ne parla, ma è solo un lieve sussurro che vela e non svela.
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«Oggi a Fanano siamo rimaste in tre. In origine il convento ospitava le Cappuccine, monache di clausura. Noi invece siamo Francescane Missionarie di Cristo, congregazione che in Italia ha undici comunità, otto in Etiopia, due in Tanzania e altre due in Brasile», spiega Suor Fortunata sotto lo sguardo vigile ma sempre affettuoso di Suor Adriana. Che, madre generale, per caso è qui ma vive a Rimini. Non è quindi “una delle tre”. «Suor Adriana è in visita per un paio di giorni» conferma la superiora. E ancora una volta sono le sue piccole mani, “spione”, ad attirare come una calamita l’attenzione. Suggeriscono infatti che, nonostante siano per numero ridotte all'osso, le sorelle Francescane, nate per volontà di Madre Teresa Zavagli, spadellano oggi zucchero come nel 1700 spadellavano le Cappuccine.
«Ma solo in occasioni particolari e in modeste quantità. Il nostro croccante è diverso da tutti gli altri, il segreto sta nella preparazione - sottolinea Suor Fortunata sempre pronta a difendere l'Inimitabile dalle ruberie - Una pasticceria di Pavullo ha tentato di copiarci. Ma tramite un avvocato siamo riuscite a proteggere quello che è un antico brevetto. Usiamo mandorle di prima qualità, pelate quindi tagliate a fette sottili. Scaldato in padella lo zucchero deve diventare come olio. Poi, una volta versato nei recipienti di rame, lo schiacciamo».
Uova, campane, castelli turriti, torte a più piani… sono infinite le sculture che il croccante permette di realizzare.
«Ma bisogna muoversi con estrema cura. È un prodotto fraglie e si rompe con facilità». Inutile insistere. In merito alla preparazione null'altro ci è dato sapere. Ma se le bocche restano cucite, vetusti sussurri raccontano di una padella scaldata a fuoco vivo, di mandorle aggiunte al momento giusto e impastate con repentino vigore. «E con molta attenzione altrimenti lo zucchero fuso in un istante diventa scuro. E addio al bel croccante biondo».
Raccontano inoltre di sassi di fiume, conservati come reliquie, con cui il nettare dorato viene assottigliato in fretta in fretta, prima che solidifichi. Un lavoro certosino che impegna intere giornate. Ma che è solo un dolcissimo paragrafo di questa storia.
Qui, in questo luogo magnifico dove chi lo desidera può trovare tregua da un mondo schizofrenico, tutto parla infatti di lei, Diomira. Che nata Maria Teresa Serri (Genova, 1708) morirà a sessant'anni Maria Diomira del Verbo Incarnato. Dove? Nel monastero di Fanano. È il 1901 quando papa Leone XIII la dichiara venerabile. Un processo quello di beatificazione che, reo lo smarrimento di alcuni documenti, al momento pare sia ancora in alto mare. Ciò che resta delle spoglie mortali della venerabile è ora davanti agli occhi dei visitatori, conservato senza fronzoli in una semplice urna. «Suor Maria Diomira è stata molto amata dalla gente dell'Appennino - sostiene la madre generale - E l'eco dei suoi miracoli ancora oggi è molto potente. Ricordo che qualche anno fa mi chiamò un distinto signore. Mi disse che in Francia, un suo buon amico, pregando accanto ad un'immagine di Diomira, aveva sconfitto un male giudicato dagli stessi medici inguaribile. In omaggio alla venerabile i due amici portarono un grande mazzo di fiori gialli». Intervento divino o suggestione? Impossibile rispondere. L'unica via di fuga pare sia sospendere il giudizio. Anche al cospetto, in quella che fu la stanzetta di Suor Diomira, dei cilici e della croce con 33 punte aguzze. Maria Teresa Serri la portò per quarant'anni vicino al cuore a contatto di pelle. Una volontaria mortificazione del corpo vissuta come penitenza. La storiografia registra che, ricevute le stimmate, la ventiduenne non ancora venerabile implorò Dio di nasconderle senza però attenuarne il dolore. Fu accontentata. Le ferite torneranno visibili solo nel giorno della sua morte.
«Questa è la cappella invernale dove Diomira entrava in estasi mentre ricamava. Il Signore infatti era solito parlarle» rivela Suor Adriana. Che, mandata in avanscoperta Suor Fortunata con la delega di aprire - e poi chiudere- le numerose porte e porticine, a proprio agio nei panni di Cicerone guida alla scoperta di questo “piccolo borgo antico” dai tanti anfratti e dalle mille suggestioni. I ricami della mistica sono di una bellezza insostenibile. Tanto che, espressione tangibile delle sue visioni, al pari di ogni altro oggetto custodito tra queste mura meriterebbero un museo. Il soggolo bianco, le stole, i piviali e il velo omerale frutto dell'abilità delle suore Cappuccine. E gli splendidi pizzi.
E i pavimenti del 1600, il rilegatore di libri, le vetuste bilance e macina caffè. E ancora contenitori di ogni forma e dimensione classificati con cura certosina. Ma soprattutto le antiche “ruote”, cilindri lignei divisi all'interno in scomparti cavi che, destinati a “dare e ricevere” oltre le mura del convento, rimangono per eccellenza il simbolo del regime di clausura. E seguendo Suor Adriana si scopre anche che, per chi ne senta il desiderio o il bisogno, c’è anche un piccolo appartamento accogliente, arredato in modo semplice e riservato, dove trascorrere un periodo in preghiera in cerca di sé ancora prima che alla scoperta di Dio. «In queste stanze ho pregato per lunghi giorni in serena solitudine» rivela la madre generale con quel suo eloquio sempre pacato eppure incisivo come un'impronta sulla neve fresca. Che lascia il segno nel viandante regalando ondate di nostalgia prima ancora di imboccare la strada del ritorno.