Modena, «Il crocifisso si può togliere dal seggio»
Il giudice: «Rimuoverlo è atto di coscienza per la laicità, a garanzia di tutti gli elettori. E raccontarlo non diffama chi lo fa»
MODENA. Un crocifisso in un’aula scolastica usata come seggio elettorale può pregiudicare la laicità dei valori e anche il voto del singolo cittadino suggestionandolo, soprattutto se in un simbolo di partito si trova la croce. Se poi qualcuno, falsamente, va in giro a raccontare che una scrutatrice, che si dichiara atea, ha chiesto al presidente del seggio (suo figlio) di togliere il crocifisso, questo “attacco” non può diffamare nessuno: è un diritto della coscienza del pubblico ufficiale chiedere di togliere il crocifisso durante il voto (quando invece il crocifisso può restare, per tradizione educativa e culturale, nella stessa aula durante le lezioni scolastiche).
Il seggio e il crocifisso. C’è voluta la sentenza di un giudice modenese per riaffermare la laicità del comportamento da tenere durante le elezioni. L’importante sentenza pronunciata dal giudice Paolo Siracusano del Tribunale Civile di Modena affronta fino in fondo e senza sconti una questione rovente che divide l’Italia: il crocifisso esposto in un luogo pubblico come un’aula scolastica. Tuttavia, lo fa esclusivamente considerando il crocifisso nell’aula usata come seggio elettorale.
La falsa notizia. Il caso prende le mosse da una vicenda di cronaca capitata nel 2008 a Sassuolo in un istituto superiore, scaturita dalla denuncia fatta da un leghista ai carabinieri in sede di scrutinio: una scrutatrice “atea”, disse il leghista, ha chiesto e ottenuto dal figlio, presidente del seggio, di togliere il crocifisso dall’aula. Era tutto falso, come poi si è chiarito. Anzi, testimoni citati, hanno riferito che in quell’aula il crocifisso non c’era mai stato. Madre e figlio, però, si erano sentiti umiliati e sottoposti al dileggio pubblico: li sfottevano per il gesto (mai avvenuto) che era stato loro attribuito: togliere il crocifisso. Di qui la richiesta di risarcimento al leghista. Che, a sua volta, aveva chiesto un risarcimento perché si era sentito calunniato.
Il pubblico dileggio. Nella sentenza, il giudice parte dalla constatazione che la notizia riferita dal leghista ai carabinieri era falsa (il giudice ritiene perciò infondate le sue lamentele). La scrutatrice (di centro-sinistra) si lamenta invece di essere stata diffamata perché togliere il crocifisso dall’aula sarebbe stata una scelta arbitraria e soprattutto offensiva di “diffuse sensibilità religiose”, scrive. Il figlio concorda con la madre e aggiunge di essere stato preso in giro facendolo figurare trattato «come un semplice burattino della madre». Il giudice riconosce che i due possano aver subito effetti negativi per un gesto - mai compiuto - che poteva urtare la sensibilità di una fascia forse maggioritaria della popolazione creando sgradevoli deterioramenti nei rapporti con alcuni conoscenti.
È davvero un’offesa? Il Tribunale Civile, però, non può riconoscere che queste conseguenze dannose siano automaticamente attribuibili a un atteggiamento offensivo. Per fare un esempio, il giudice cita la recente sentenza della Cassazione secondo la quale dare dell’“omosessuale” a qualcuno non è un’offesa di per sé. Allo stesso modo togliere il crocifisso da un’aula sede di un seggio elettorale non si può definire un’azione squalificante o offensiva per la collettività. Il problema, scrive il giudice, è capire a quale collettività ci si riferisce. Può succedere infatti che si venga giudicati ed esclusi anche da comunità più ristrette che non rappresentano la collettività generale.
Il voto e la coscienza. Per chiarire invece la posizione della legge italiana, il giudice ricorda un precedente importante: nel 2000 la Cassazione stabilì che uno scrutatore che si era rifiutato di svolgere l’incarico perché c’era un crocifisso in aula aveva agito «secondo giustificato motivo», perché stava manifestando la libertà di coscienza. Quello scrutatore, infatti, si era rifiutato di svolgere l’ufficio perché riteneva che nella sua coscienza riaffiorasse un conflitto tra l’esposizione del simbolo religioso e il senso profondo del suo incarico: garantire la laicità e l’imparzialità di fronte a tutti gli elettori.
Le accuse degli altri. La scrutatrice sassolese, invece, era infastidita dall’essere stata tacciata di aver fatto togliere il crocifisso perché atea. Quindi, spiega il giudice, era infastidita dall’accusa di averlo fatto per sue “opinioni culturali”. Il suo discredito si legava così all’opinione che la sua comunità di riferimento avrebbe avuto di lei; un’opinione sbagliata, dice il giudice. In realtà lei poteva farlo: la legge glielo permetteva. È invece l’“opinione culturale” di tenere un crocifisso sopra la cabina elettorale che viola il principio di laicità che vale per ogni seggio. (Caso diverso è il crocifisso in un’aula durante le lezioni, che la Ue (Corte Cedu) riconosce come elemento da valutare in base alla discrezionalità di ogni Stato).
Cos’è discriminante. La discriminazione non sta dunque nel togliere il simbolo religioso durante il voto (come diceva la falsa notizia) ma nell’estrema disponibilità a compiacere altri, magari per gentilezza; atteggiamento che diventa «una rinuncia a presidiare uno spazio in cui si esplica l’esercizio di una libertà costituzionale che appartiene a tutti». Anche ai non credenti.
Non c’è diffamazione. C’è allora diffamazione nell’accusa falsa contro lei e il figlio? No, scrive il giudice: il risarcimento serve a tutelare un singolo nell’ambiente sociale, e non da un ambiente sociale. Se la scrutatrice si sente diffamata per l’accusa falsa di aver fatto togliere il crocifisso, ha subìto una discriminazione da un gruppo. Al contrario, la “non discriminazione”, la laicità e l’imparzialità della pubblica amministrazione «sono gli anticorpi che un sistema si dà per porre freno alle sue derive autoritarie. Sarebbe paradossale - aggiunge il giudice - una condanna al risarcimento per diffamazione nell’ipotesi che qualcuno falsamente attribuisca a un terzo una condotta espressiva di una sensibilità religiosa perché in un certo gruppo si creano effetti che negano i principi dell’ordinamento per la tutela dei diritti individuali».
Un gruppo non è tutti. Non c’è stata diffamazione, insomma, perché il crocifisso dall’aula si può togliere durante il voto e perché dirlo non offende chi lo fa: la legge e l’ordinamento italiano lo permettono. Se si rispettassero di più questi principi laici dello Stato, conclude il giudice, l’insieme della società e il suo ordinamento sarebbero più rispettosi delle opinioni altrui, soprattutto se minoritarie, senza che queste vengano distorte da gruppi che di fatto discriminano.
Di qui la decisione del giudice di dividere le spese della lite a metà tra madre e figlio e il leghista.