PROCESSO AEMILIA
Colpo di scena: «Tengo famiglia, ai giudici non parlo»
di Alberto Setti
Ex operai della Bianchini ritrattano. La difesa: «Testimoni falsi». La Dda: «Sono stati intimiditi». Le buste paga da Bolognino
14 aprile 2017
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SAN FELICE. Un testimone “falso” forzato negli uffici dei carabinieri per costruire una accusa falsa al processo Aemilia, come sostiene la difesa dei Bianchini?
Oppure un testimone che all’insegna del “tengo famiglia” (parole testuali) ha evidentemente paura, come ha invece sostenuto la Procura antimafia?
Certamente un testimone - per di più costituito parte civile - che ieri ha disseminato a piene mani imbarazzo, sconcerto e indignazione bipartisan nel cuore del Tribunale di Reggio, davanti al quale si celebra il Processo Aemilia.
Antonio, 33 anni, originario di Torre Annunziata e residente in un piccolo comune del mantovano, se n’è uscito con dichiarazioni mai sentite finora, in un processo di mafia pur così delicato: «Presidente - ha detto tra l’altro al dottor Caruso, durante il controesame delle difese - denunciatemi pure, ma io mi sono scocciato, e non parlo più. Non voglio più sapere niente... Ho figli a casa...».
Dopo una breve sospensione dell’udienza Antonio ha dapprima fatto sapere che avrebbe ripreso a parlare, poi si è di nuovo rifiutato, totalizzando l’incredibile.
Antonio lavorava alla Bianchini costruzioni, nel 2012 del dopo sisma. Fa parte del “lotto” di muratori procurati al costruttore sanfeliciano da imputati della presunta ’ndrangheta Emiliana, ovvero Lauro Alleluia che reclutava e Michele Bolognino che comandava, minacciava e tratteneva (i soldi). Dei tredici individuati dai carabinieri di Modena nelle indagini, due si erano resi disponibili a testimoniare. Antonio anzi si era pure costituito parte civile con l’avvocato Giubertoni di Mantova, dopo aver dichiarato di avere ricevuto minacce da Bolognino, e di essere rimasto senza la corresponsione di cassa edile, buoni pasto, liquidazione per quei tre mesi...
«Non ho mai avuto il coraggio di denunciare, perché Michele mi avrebbe aggredito, e rischiavo di non lavorare più», aveva dichiarato ai carabinieri di Modena nel 2016, aggiungendo che “Michele” il calabrese,si tratteneva parte della sua busta paga.
Emanuele, 35 anni, originario di Torre del Greco, anche lui trapiantato nel mantovano, collega presso i Bianchini e amico di Antonio, nella veste di testimone che lo seguiva, ieri ha finito per fare la stessa fine: parole sfarfugliate, incomprensibili, conferme e ritrattazioni al tempo stesso: «E che ne so io? Io non ne voglio sapere nulla... Minacciato io? Ma quando mai, a me non mi minaccia nessuno...», ha detto rispondendo - si fa per dire - al pm Beatrice Ronchi e agli avvocati. Al sicuro, nella caserma dei carabinieri di Modena, aveva detto tutt’altro: «Mi sentivo intimidito da Michele che secondo me era un tipo poco raccomandabile. Non mi piaceva, così me ne sono andato».
Un cinema, insomma.
Tanto che la Corte ha sospeso l’udienza, per decidere se ricorressero gli estremi di una possibile minaccia della ’ndrangheta, tesa a far ritrattare i due ex dipendenti della Bianchini Costruzioni. I segnali di questa cortina fumogena c’erano già tutti da giorni.
Da quando Antonio ed Emanuele avevano disertato la prima convocazione in Tribunale uno perché «non più interessato», l’altro perché «senza il passaggio in auto per arrivare a Reggio». E ieri, dopo quei segnali, si è consumato lo psicodramma: «È evidente che il teste ha paura», ha detto la dottoressa Ronchi, della Procura antimafia, innescando rimbrotti violenti e mugugni dalle gabbie degli imputati.
Se la Corte avesse avallato la tesi delle minacce, sarebbero bastate le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni ai carabinieri di Modena, un anno fa. Ma questo avrebbe anche significato una sorta di sentenza preventiva sul processo. Alla fine i magistrati hanno scelto ancora una mediazione. Considerando comunque valida la testimonianza di Emanuele e riconvocando per la prossima udienza Antonio. Nella inconfessabile speranza che qualcuno gli faccia comprendere la gravità di quello che ha detto - o non detto - ieri in aula.
Di certo gli avvocati Giulio Garuti e Simone Bonfante, difensori dei Bianchini (ieri c’erano Augusto, Alessandro e Braga Bruna) hanno mostrato documenti dai quali risultavano pagamenti regolari, partecipazione ai corsi di formazione, versamento della Cassa Edile e del tfr... Una gestione modello dei dipendenti, insomma. Un’altra visione delle cose.
«Mi davano 5 euro all’ora, la cassa edile non l’ho mai ricevuta», ha ribattuto Antonio, prima di scomparire nel “tengo famiglia”. In un susseguirsi di colpi di scena. Incluso il disconoscimento delle firme su una parte di quei documenti prodotti dalla difesa: «Questa non è la mia firma, è falsa».
Ma entrambi i testimoni (smontati o minacciati, chissà) su una circostanza sono stati irremovibili: pur essendo formalmente assunti dalla Bianchini Costruzioni, pur ricevendo (secondo la tesi difensiva) lo stipendio dalla Bianchini, per ritirare la busta paga e i “rimborsi spese fuori busta” si recavano - con altri operai - «nel capannone di Montecchio Emilia», nel lontano reggiano. Dove ad accoglierli, c’erano Alleluia Lauro (quello della gettata di cemento per coprire l’amianto alla Phoenix), «un altro calabrese alto e grosso e Michele».
Ovvero quel Michele Bolognino oggi al carcere duro, all’epoca “capobastone” della ’ndrangheta emiliana, secondo la Dda. E Michele - hanno detto nei verbali dei carabinieri e hanno ribadito i due testimoni in udienza - «a pelle» non piaceva. Forse sì-forse no minacciava gli operai, «ma a me no, signor giudice». Tratteneva una quota dello stipendio «ma a me no, signor giudice». E aveva sul tavolo di Montecchio i buoni pasto dei Bianchini «che a me non venivano dati, signor giudice». Era Michele che faceva i conti delle ore e riceveva gli operai alle nove di sera.
«Ma perché - ha chiesto il presidente Caruso - se lei riceceveva regolare stipendio sul conto corrente, lavorava nei cantieri di Mirandola e Finale, era stato a firmare il contratto alla Bianchini di San Felice... Perché andava da Gonzaga fino a Montecchio alle nove di sera per ritirare il foglio della busta paga?». Già, perché?
«Che ne saccio io, signor giudice, quelli si tenevano 23 euro all’ora, mi pagavano,... 5-6 euro,... Ma io ora non ne voglio sapere niente...».
Oppure un testimone che all’insegna del “tengo famiglia” (parole testuali) ha evidentemente paura, come ha invece sostenuto la Procura antimafia?
Certamente un testimone - per di più costituito parte civile - che ieri ha disseminato a piene mani imbarazzo, sconcerto e indignazione bipartisan nel cuore del Tribunale di Reggio, davanti al quale si celebra il Processo Aemilia.
Antonio, 33 anni, originario di Torre Annunziata e residente in un piccolo comune del mantovano, se n’è uscito con dichiarazioni mai sentite finora, in un processo di mafia pur così delicato: «Presidente - ha detto tra l’altro al dottor Caruso, durante il controesame delle difese - denunciatemi pure, ma io mi sono scocciato, e non parlo più. Non voglio più sapere niente... Ho figli a casa...».
Dopo una breve sospensione dell’udienza Antonio ha dapprima fatto sapere che avrebbe ripreso a parlare, poi si è di nuovo rifiutato, totalizzando l’incredibile.
Antonio lavorava alla Bianchini costruzioni, nel 2012 del dopo sisma. Fa parte del “lotto” di muratori procurati al costruttore sanfeliciano da imputati della presunta ’ndrangheta Emiliana, ovvero Lauro Alleluia che reclutava e Michele Bolognino che comandava, minacciava e tratteneva (i soldi). Dei tredici individuati dai carabinieri di Modena nelle indagini, due si erano resi disponibili a testimoniare. Antonio anzi si era pure costituito parte civile con l’avvocato Giubertoni di Mantova, dopo aver dichiarato di avere ricevuto minacce da Bolognino, e di essere rimasto senza la corresponsione di cassa edile, buoni pasto, liquidazione per quei tre mesi...
«Non ho mai avuto il coraggio di denunciare, perché Michele mi avrebbe aggredito, e rischiavo di non lavorare più», aveva dichiarato ai carabinieri di Modena nel 2016, aggiungendo che “Michele” il calabrese,si tratteneva parte della sua busta paga.
Emanuele, 35 anni, originario di Torre del Greco, anche lui trapiantato nel mantovano, collega presso i Bianchini e amico di Antonio, nella veste di testimone che lo seguiva, ieri ha finito per fare la stessa fine: parole sfarfugliate, incomprensibili, conferme e ritrattazioni al tempo stesso: «E che ne so io? Io non ne voglio sapere nulla... Minacciato io? Ma quando mai, a me non mi minaccia nessuno...», ha detto rispondendo - si fa per dire - al pm Beatrice Ronchi e agli avvocati. Al sicuro, nella caserma dei carabinieri di Modena, aveva detto tutt’altro: «Mi sentivo intimidito da Michele che secondo me era un tipo poco raccomandabile. Non mi piaceva, così me ne sono andato».
Un cinema, insomma.
Tanto che la Corte ha sospeso l’udienza, per decidere se ricorressero gli estremi di una possibile minaccia della ’ndrangheta, tesa a far ritrattare i due ex dipendenti della Bianchini Costruzioni. I segnali di questa cortina fumogena c’erano già tutti da giorni.
Da quando Antonio ed Emanuele avevano disertato la prima convocazione in Tribunale uno perché «non più interessato», l’altro perché «senza il passaggio in auto per arrivare a Reggio». E ieri, dopo quei segnali, si è consumato lo psicodramma: «È evidente che il teste ha paura», ha detto la dottoressa Ronchi, della Procura antimafia, innescando rimbrotti violenti e mugugni dalle gabbie degli imputati.
Se la Corte avesse avallato la tesi delle minacce, sarebbero bastate le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni ai carabinieri di Modena, un anno fa. Ma questo avrebbe anche significato una sorta di sentenza preventiva sul processo. Alla fine i magistrati hanno scelto ancora una mediazione. Considerando comunque valida la testimonianza di Emanuele e riconvocando per la prossima udienza Antonio. Nella inconfessabile speranza che qualcuno gli faccia comprendere la gravità di quello che ha detto - o non detto - ieri in aula.
Di certo gli avvocati Giulio Garuti e Simone Bonfante, difensori dei Bianchini (ieri c’erano Augusto, Alessandro e Braga Bruna) hanno mostrato documenti dai quali risultavano pagamenti regolari, partecipazione ai corsi di formazione, versamento della Cassa Edile e del tfr... Una gestione modello dei dipendenti, insomma. Un’altra visione delle cose.
«Mi davano 5 euro all’ora, la cassa edile non l’ho mai ricevuta», ha ribattuto Antonio, prima di scomparire nel “tengo famiglia”. In un susseguirsi di colpi di scena. Incluso il disconoscimento delle firme su una parte di quei documenti prodotti dalla difesa: «Questa non è la mia firma, è falsa».
Ma entrambi i testimoni (smontati o minacciati, chissà) su una circostanza sono stati irremovibili: pur essendo formalmente assunti dalla Bianchini Costruzioni, pur ricevendo (secondo la tesi difensiva) lo stipendio dalla Bianchini, per ritirare la busta paga e i “rimborsi spese fuori busta” si recavano - con altri operai - «nel capannone di Montecchio Emilia», nel lontano reggiano. Dove ad accoglierli, c’erano Alleluia Lauro (quello della gettata di cemento per coprire l’amianto alla Phoenix), «un altro calabrese alto e grosso e Michele».
Ovvero quel Michele Bolognino oggi al carcere duro, all’epoca “capobastone” della ’ndrangheta emiliana, secondo la Dda. E Michele - hanno detto nei verbali dei carabinieri e hanno ribadito i due testimoni in udienza - «a pelle» non piaceva. Forse sì-forse no minacciava gli operai, «ma a me no, signor giudice». Tratteneva una quota dello stipendio «ma a me no, signor giudice». E aveva sul tavolo di Montecchio i buoni pasto dei Bianchini «che a me non venivano dati, signor giudice». Era Michele che faceva i conti delle ore e riceveva gli operai alle nove di sera.
«Ma perché - ha chiesto il presidente Caruso - se lei riceceveva regolare stipendio sul conto corrente, lavorava nei cantieri di Mirandola e Finale, era stato a firmare il contratto alla Bianchini di San Felice... Perché andava da Gonzaga fino a Montecchio alle nove di sera per ritirare il foglio della busta paga?». Già, perché?
«Che ne saccio io, signor giudice, quelli si tenevano 23 euro all’ora, mi pagavano,... 5-6 euro,... Ma io ora non ne voglio sapere niente...».