Giovanardi: «Il prefetto? Un coniglio»
Gli atti: per favorire i Bianchini “minacce” e pressioni anche ai carabinieri che indagavano sulla cosca: «Danni da pagare»
28 aprile 2017
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«Il prefetto? È un coniglio,... un devoto... Un personaggio che pensa soltanto a non fare cose che lui pensa siano controproducenti per lui stesso..».
Il superpoliziotto Incognito, che doveva garantire Modena contro le infiltrazioni nella ricostruzione post sisma? Uno che dice «io non ho particolari problemi, e quindi non sono io», sottinteso in soldoni ad escludere le ditte dei Bianchini in odore di mafia dalla white list.
I vertici dei carabinieri di Modena, che tra l’altro indagavano sull’inchiesta Aemilia? Gente cui presentarsi così: «Piacere, carabiniere, sono Giovanardi.... Stamattina sono stato insieme al generale Zottin, vice comandante dell’ Arma dei carabinieri». Per poi paventare che «qualcuno» (sottinteso quasi certamente gli stessi carabinieri che indagavano su Aemilia) dovrà «rispondere dei danni» provocati alle imprese per la mancata inclusione nelle white list.
Il viceprefetto Ventura, indagato nell’Aemilia ter? Tutto il contrario: «Un amico».
C’è un po’ tutto questo nel vocabolario che la Direzione distrettuale antimafia di Bologna attribuisce al senatore Carlo Giovanardi, indagato con altre undici persone, tra cui lo stesso viceprefetto Ventura, nell’inchiesta approdata martedì davanti al giudice delle indagini preliminari di Bologna, dottor Alberto Ziroldi.
«Pressioni e dirette minacce al prefetto», ai carabinieri, ai componenti del gruppo interforze, per ottenere la mutazione dei provvedimenti adottati nei confronti sia della ditta Bianchini Costruzioni, sia della Ios di Alessandro Bianchini.
A suffragare queste accuse una mole di documenti, a partire da quei famosi 23 filmati girati con il telefonino da Alessandro Bianchini e sequestrati a San Felice nel parimenti famoso blitz Aemilia, a gennaio 2015.
E poi le intercettazioni, i tabulati (risultano 400 conversazioni tra i Bianchini e Giovanardi), le conferenze stampa, i verbali degli esami delle persone informate dei fatti che in questi mesi la Dda ha sentito.
Il senatore cercava, tampinava, un po’ tutti, per rovesciare le decisioni a favore dei Bianchini. Come accadde ai carabinieri, al comandante provinciale Savo e al suo vice, il colonnello Cristaldi, a sua volta al comando del nucleo investigativo che ha condotto le indagini di Aemilia. Vengono “convocati” da Giovanardi in un locale pubblico, il 17 ottobre del 2014. Si presentano in divisa, per mantenere formalità e distanze, ma vengono investiti dall’elenco di conoscenze importanti (dal Prefetto ai vertici dell’Arma) che il senatore snocciola. E dalla “minaccia” di esposti alla magistratura, o di risarcimento di danni. I carabinieri riferiranno di essere rimasti “interdetti” dal fatto che Giovanardi conoscesse il numero e i contenuti delle riunioni segrete che si tenevano in prefettura sul tema del rischio infiltrazioni nelle ditte.
Trattato anche peggio il prefetto (allora c’era Michele Di Bari), contro cui il senatore - questa è l’ipotesi della Dda - usava «pressioni e anche dirette minacce, aggredendolo verbalmente» in numerose occasioni, per fargli modificare l’intenzione o la decisione di escludere le ditte Bianchini dalla white list.
Fino a paventare la richiesta di dimissioni: «Martedì torno da Frattasi, torno lì, magari chiedendo anche la testa del prefetto. Se trova che il prefetto non sa fare il suo mestiere, ragazzi, va a casa!», dice negli atti.
Detto che Frattasi era il superprefetto del Ministero dell’Interno che poteva asseritamente far modificare le posizioni del Gruppo interforze in prefettura a Modena, nell’inchiesta della Dda di Bologna viene evidenziato anche un uso un po’ strumentale della stampa.
Peggio, sarebbero state strumentalmente usate terze persone, sempre per attaccare il prefetto. Persino l’avvocato Lugli, presidente pro tempore della società Baraldi spa, il quale dopo l’adozione dell’interdittiva (poi revocata) contro quella ditta, si era pubblicamente scagliato contro il prefetto «mandato da Roma, ma non nato e cresciuto a Modena», e che «non intende render conto del suo operato, sicuro di non incorrere in alcuna responsabilità».
Giovanardi ha sempre parlato di attività politica, di una azione ispettiva propria di un parlamentare eletto dal popolo. Ma se fosse vero che Lugli - negli atti di questa nuova inchiesta - ha disconosciuto quelle parole contenute in una lettera ai giornali, ascrivendole invece “al solo senatore”, il quale se ne sarebbe servito per convincere la gente della inadeguatezza del prefetto e dei suoi collaboratori, strumentalizzando la stima e l’autorevolezza dell’avvocato Lugli. Ebbene, se questo fosse vero, si comprende di più la gravità dell’imputazione mossa a Giovanardi: quella delle minacce e delle pressioni a corpi dello Stato per favorire i Bianchini, a loro volta imputati (oggi) di concorso esterno ad un associazione mafiosa.
Il Gip Ziroldi si è riservato 10 giorni, per valutare queste migliaia di pagine e valutare se chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere contro il conosciuto politico modenese. Così conosciuto e così rispettato che, da quando l’inchiesta è nota, quasi nessuno degli onnipresenti “commentatori” o politici ha osato farsi sfuggire il benché minimo afflato.
Alberto Setti
Il superpoliziotto Incognito, che doveva garantire Modena contro le infiltrazioni nella ricostruzione post sisma? Uno che dice «io non ho particolari problemi, e quindi non sono io», sottinteso in soldoni ad escludere le ditte dei Bianchini in odore di mafia dalla white list.
I vertici dei carabinieri di Modena, che tra l’altro indagavano sull’inchiesta Aemilia? Gente cui presentarsi così: «Piacere, carabiniere, sono Giovanardi.... Stamattina sono stato insieme al generale Zottin, vice comandante dell’ Arma dei carabinieri». Per poi paventare che «qualcuno» (sottinteso quasi certamente gli stessi carabinieri che indagavano su Aemilia) dovrà «rispondere dei danni» provocati alle imprese per la mancata inclusione nelle white list.
Il viceprefetto Ventura, indagato nell’Aemilia ter? Tutto il contrario: «Un amico».
C’è un po’ tutto questo nel vocabolario che la Direzione distrettuale antimafia di Bologna attribuisce al senatore Carlo Giovanardi, indagato con altre undici persone, tra cui lo stesso viceprefetto Ventura, nell’inchiesta approdata martedì davanti al giudice delle indagini preliminari di Bologna, dottor Alberto Ziroldi.
«Pressioni e dirette minacce al prefetto», ai carabinieri, ai componenti del gruppo interforze, per ottenere la mutazione dei provvedimenti adottati nei confronti sia della ditta Bianchini Costruzioni, sia della Ios di Alessandro Bianchini.
A suffragare queste accuse una mole di documenti, a partire da quei famosi 23 filmati girati con il telefonino da Alessandro Bianchini e sequestrati a San Felice nel parimenti famoso blitz Aemilia, a gennaio 2015.
E poi le intercettazioni, i tabulati (risultano 400 conversazioni tra i Bianchini e Giovanardi), le conferenze stampa, i verbali degli esami delle persone informate dei fatti che in questi mesi la Dda ha sentito.
Il senatore cercava, tampinava, un po’ tutti, per rovesciare le decisioni a favore dei Bianchini. Come accadde ai carabinieri, al comandante provinciale Savo e al suo vice, il colonnello Cristaldi, a sua volta al comando del nucleo investigativo che ha condotto le indagini di Aemilia. Vengono “convocati” da Giovanardi in un locale pubblico, il 17 ottobre del 2014. Si presentano in divisa, per mantenere formalità e distanze, ma vengono investiti dall’elenco di conoscenze importanti (dal Prefetto ai vertici dell’Arma) che il senatore snocciola. E dalla “minaccia” di esposti alla magistratura, o di risarcimento di danni. I carabinieri riferiranno di essere rimasti “interdetti” dal fatto che Giovanardi conoscesse il numero e i contenuti delle riunioni segrete che si tenevano in prefettura sul tema del rischio infiltrazioni nelle ditte.
Trattato anche peggio il prefetto (allora c’era Michele Di Bari), contro cui il senatore - questa è l’ipotesi della Dda - usava «pressioni e anche dirette minacce, aggredendolo verbalmente» in numerose occasioni, per fargli modificare l’intenzione o la decisione di escludere le ditte Bianchini dalla white list.
Fino a paventare la richiesta di dimissioni: «Martedì torno da Frattasi, torno lì, magari chiedendo anche la testa del prefetto. Se trova che il prefetto non sa fare il suo mestiere, ragazzi, va a casa!», dice negli atti.
Detto che Frattasi era il superprefetto del Ministero dell’Interno che poteva asseritamente far modificare le posizioni del Gruppo interforze in prefettura a Modena, nell’inchiesta della Dda di Bologna viene evidenziato anche un uso un po’ strumentale della stampa.
Peggio, sarebbero state strumentalmente usate terze persone, sempre per attaccare il prefetto. Persino l’avvocato Lugli, presidente pro tempore della società Baraldi spa, il quale dopo l’adozione dell’interdittiva (poi revocata) contro quella ditta, si era pubblicamente scagliato contro il prefetto «mandato da Roma, ma non nato e cresciuto a Modena», e che «non intende render conto del suo operato, sicuro di non incorrere in alcuna responsabilità».
Giovanardi ha sempre parlato di attività politica, di una azione ispettiva propria di un parlamentare eletto dal popolo. Ma se fosse vero che Lugli - negli atti di questa nuova inchiesta - ha disconosciuto quelle parole contenute in una lettera ai giornali, ascrivendole invece “al solo senatore”, il quale se ne sarebbe servito per convincere la gente della inadeguatezza del prefetto e dei suoi collaboratori, strumentalizzando la stima e l’autorevolezza dell’avvocato Lugli. Ebbene, se questo fosse vero, si comprende di più la gravità dell’imputazione mossa a Giovanardi: quella delle minacce e delle pressioni a corpi dello Stato per favorire i Bianchini, a loro volta imputati (oggi) di concorso esterno ad un associazione mafiosa.
Il Gip Ziroldi si è riservato 10 giorni, per valutare queste migliaia di pagine e valutare se chiedere al Senato l’autorizzazione a procedere contro il conosciuto politico modenese. Così conosciuto e così rispettato che, da quando l’inchiesta è nota, quasi nessuno degli onnipresenti “commentatori” o politici ha osato farsi sfuggire il benché minimo afflato.
Alberto Setti