Modena, i Green Days di Giorgio Rinaldi: "Le mie barchette nel fosso e il porticciolo fatto di sassi"
L’infanzia in campagna tra gli affetti del professore e pittore vignolese Il profumo della polenta, i giochi inventati: ma quel giorno coi cavalli...
MODENA. Giorgio Rinaldi, classe 1943, professore, scrittore di storia locale e civiltà contadina, allievo del maestro pittore Tino Pelloni, esponente del Chiarismo modenese, è nato a Brodano di Vignola. «La mia famiglia - ricorda - era composta dai miei genitori e dai miei nonni paterni. Mio padre era quasi sempre al lavoro e spesso veniva a casa tardi alla sera. Di me si occupavano mia madre e, soprattutto, mia nonna. E poi c'erano gli animali. Ho sempre avuto tanti animali: i miei allevavano galline, conigli, oche e maiali. Ho avuto un cagnolino per un certo periodo e soprattutto tanti gatti. Ancora oggi il gatto è il mio animale preferito».
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«Abitavamo in campagna - racconta - Qui, da bambino giocavo nei campi e in strada, come tutti gli altri bambini della zona. Ho frequentato l’asilo soltanto dai 4 ai 5 anni, ma non mi piaceva e, in un giorno in cui a Vignola c’era il mercato, approfittando della confusione, sono scappato, lasciando tutti nella disperazione per parecchie ore. Di quell’anno poi ricordo gli odori di pasta con fagioli e di conserva della mensa, quello della cartellina di cartone pressato, l’obbligo di dormire al pomeriggio, quando invece avrei avuto voglia di correre e giocare. Ricordo con più piacere i profumi di casa, quelli della polenta e dello gnocco fritto, poi quelli della legna che bruciava nel camino e nella stufa. Da bambini ci mandavano nei campi a raccogliere la camomilla per fare tisane e in strada a raccogliere lo sterco di cavallo, come fertilizzante per i fiori, per tenerci occupati. Una volta, mentre con un mio amico stavo raccogliendo in strada sterco di cavallo, cominciammo a litigare e poi a tirarci addosso tutto quello che avevamo raccolto. Ritornati a casa, le nostre madri, dopo averci fatto fare il bagno, ci misero in punizione per un’intera settimana».
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«In quegli anni, coi compagni - dice - giocavo a nascondino, a palla avvelenata o prigioniera, a ruba bandiera nei cortili, invece in strada giocavamo a palla o a pallone. Allora le strade non erano asfaltate e passavano pochi carri trainati da cavalli. Da solo giocavo coi “soldatini” che in realtà erano cartucce vuote di cartone. Così fino all’età di dieci anni. Fabbricavo giocattoli, specialmente navi e barchette di legno. Con le barche e i soldatini (cartucce) giocavo nel fosso dietro casa e costruivo con pietre piccoli porticcioli e casette. Alla domenica e durante le feste, con i miei genitori, andavo a trovare i parenti e trascorrevo anche molto tempo con mio padre, un uomo molto buono, ma severo. E mi ha seguito negli studi dopo le elementari, aiutandomi in matematica, algebra e geometria fino ai 15 anni e oltre. Sono state mia madre e mia nonna, come ho già detto, a seguirmi molto da vicino ed è stata proprio la nonna a insegnarmi a parlare dialetto. A quel tempo, al di fuori della famiglia, gli adulti con noi bambini avevano in generale scarsi rapporti e non ci davano confidenza».
«Ho avuto buoni rapporti coi maestri che erano però severi e ci bacchettavano sulle dita - continua Rinaldi - A scuola ho sempre avuto interesse per la geografia, la storia e la lettura. Mi piaceva molto andarci. Dagli 11 ai 13 anni ho frequentato le medie, leggevo moltissimo e le materie che mi appassionavano erano sempre geografia, storia, italiano. E disegno. Più tardi ho iniziato a dipingere, cosa che faccio tuttora. Belle anche le estati nel nostro Appennino, presso conoscenti».
Monica Tappa