Sentenza Aemilia, 9 anni per Augusto Bianchini, 8 per l'imprenditore Gibertini

Sentenza Aemilia, 9 anni per Augusto Bianchini, 8  per l'imprenditore Gibertini

Quattro anni per la moglie Bruna. Assolti Alessandra e Nicola Bianchini, 3 anni ad Alessandro. 20 anni e 7 mesi per Bolognino

31 ottobre 2018
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E' di 125 condanne, 19 assoluzioni e quattro prescrizioni il verdetto pronunciato nel primo pomeriggio in tribunale a Reggio Emilia dal collegio dei giudici presieduto da Francesco Maria Caruso (affiancato a latere da Cristina Beretti e Andrea Rat) che poco dopo le 14 di oggi, 31 ottobre, finisce di leggere la sentenza di primo grado per "Aemilia", il maggiore processo contro la 'ndrangheta del nord italia con 148 imputati alla sbarra. Al netto di alcune riduzioni di pena anche consistenti, (compensate però da condanne più pesanti rispetto a quanto chiesto dall'accusa per altre posizioni) è quindi pienamente conclamata l'esistenza di una 'ndrina attiva da anni in Emilia e nel mantovano con epicentro a Reggio Emilia, diretta emanazione della cosca Grande Aracri di Cutro, ma autonoma e indipendente da essa.

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In questo contesto, la sentenza ha stabilito nove anni e 10 mesi di reclusione per Augusto Bianchini, quattro per la mamma Bruna, senza aggravante. Assolti Alessandra e Nicola Bianchini, tre anni ad Alessandro. Augusto Bianchini è stato condannato per per abuso d'ufficio in concorso con il geometra Gerrini, caporalato, false fatture e concorso esterno in associazione mafiosa. Per la vicenda dell'amianto, invece, è stato stabilito che non c'è reato o danno ambientale.Respinte, quindi, le relative costituzioni di parte civiile di Ricommerciamo, Legambiente e Ministero dell'ambiente.  Il giudice ha invece condannato a vent'anni e sette mesi Michele Bolognino e otto per l'imprenditore Gino Gibertini, accusato di estorsione. Questi alcuni passaggi che riguardano da vicino Modena della sentenza letta dai giudici al Tribunale di Reggio, dove si svolge il processo Aemilia. E, ancora, 19 anni a Giuseppe Iaquinta il quale esce dall'aula gridando: "Siete ridicoli". 11 anni a  Vincenzo Mancuso, due a Vincenzo Iaquinta, ex giocatore della Nazionale e della Juventus, nove a Francesco Pelaggi. Grida in aula anche per le condanne di Salvatore e Floriana Silipo.


L’ex attaccante della Juventus e della Nazionale campione del Mondo Vincenzo Iaquinta è stato condannato a due anni nel processo di `Ndrangheta Aemilia. Per lui la Dda aveva chiesto sei anni, per reati di armi. Il padre dell’ex calciatore, Giuseppe Iaquinta, accusato di associazione mafiosa, è stato condannato invece a 19 anni. Padre e figlio se ne sono andati dall’aula del tribunale di Reggio Emilia urlando «vergogna, ridicoli» mentre è ancora in corso la lettura del dispositivo. "Il nome 'ndrangheta non sappiamo neanche cosa sia nella nostra famiglia. Non è possibile. Andremo avanti. Mi hanno rovinato la vita sul niente perché sono calabrese, perché sono di Cutro. Io ho vinto un Mondiale e sono orgoglioso di essere calabrese. Noi non abbiamo fatto niente perché con la 'ndrangheta non c'entriamo niente. Sto soffrendo come un cane per la mia famiglia e i miei bambini senza aver fatto niente". Così Vincenzo Iaquinta fuori dal tribunale dopo la condanna a due anni nel processo di 'Ndrangheta Aemilia.

IL RITARDO

Operazioni a rilento in tribunale di Reggio per la lettura dell'attesa sentenza di primo grado del processo con 148 imputati, una cinquantina dei quali ritenuti affiliati alla cosca Grande Aracri di Cutro, infiltrata in Emilia e nel mantovano. Il dispositivo era atteso per le 11, ma i tempi si sono allungati (circa una mezz'ora il ritardo comunicato) per un guasto al sistema di videoconferenza, che collega l'aula alle carceri italiani e ai siti riservati che ospitano i collaboratori di giustizia e alcuni degli imputati detenuti. L'aula bunker del Palazzo di giustizia è gremita di gente. Le 'gabbie' degli imputati sono invece insolitamente vuote.  Secondo le stime di alcuni legali la lettura della sentenza si protrarrà per circa tre ore. Presenti in aula tanti sindaci, anche modenesi.
 

I COMMENTI PRIMA DELL'ARRIVO DELLA CORTE PER LA LETTURA DELLA SENTENZA

IL GRANDE BLITZ

In questi due anni il processo ha visto il susseguirsi di 195 udienze per valutare la posizione di 148 imputati, conviene riannotare la portata deflagrante dell’inchiesta Aemilia a fronte degli anticorpi regionali contro le infiltrazioni.

Che l’Emilia-Romagna sia terra di ’ndrangheta ormai lo ha sancito la Cassazione nel condannare i 46 imputati che avevano scelto i riti alternativi. Tra loro, oltre al boss Nicolino Grande Aracri, che in questo processo ha comunque avuto un ruolo sfumato, c’erano molti dei capibastone: Alfonso Diletto, Romolo Villirillo, Francesco Lamanna e Antonio Gualtieri. Tutti volti diventati “famosi” il 28 gennaio 2015 quando i carabinieri effettuarono un imponente blitz tra le province di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Era di fatto l’ultimo atto di un’inchiesta durata anni e partita dal Nucleo operativo dell’Arma di Modena. Perché il primo reato spia fu registrato a Sassuolo nel 2010 quando una bomba fece esplodere l’Agenzia delle Entrate. Iniziarono gli accertamenti, suggellati dall’operazione “Point Break” che portarono all’arresto anche di Paolo Pelaggi, uomo del clan Arena e poi coinvolto in Aemilia in veste di riciclatore del denaro della cosca. Cinque anni dopo, seguendo Pelaggi oltre ad alcuni reati a Fiorenzuola - tra cui l’incendio dell’auto di un imprenditore - gli investigatori, coordinati dalla Dda di Bologna, con a capo il procuratore Giuseppe Amato e i sostituti Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, hanno chiuso il cerchio.

I REATI

L’associazione mafiosa è certamente la contestazione più importante, ma negli ultimi due anni di udienza si è a lungo parlato anche di detenzione di armi, spaccio di droga, estorsioni, usura, fatture false, intestazioni fittizie, riciclaggio, bancarotta fraudolenta. Un caleidoscopio di imputazioni che dimostrano come la lunga mano ’ndranghetista si sia allargata su più fronti e si sia sviluppata con modalità diverse, facendo comunque sempre leva sulla potenza del denaro. Quel denaro che ha portato la famiglia Bianchini sul banco degli accusati per i rapporti con Michele Bolognino e le fatture false con Pino Giglio, quel denaro che Gino Gibertini voleva - forse - recuperare dal creditore ritardatario e sfuggente.

F.D.