Sisma, quello squarcio nella Bassa. Ultimi sette mesi di emergenza
Undici anni fa la prima delle tante scosse che hanno cambiato la vita a 3 province. Alla fine del 2023 scadono i benefici e la ricostruzione proseguirà in autonomia
di Francesco Dondi
Fa specie, 11 anni dopo, raccontare un disastro naturale come il terremoto che ha devastato le province di Modena, Ferrara e Reggio. Fa impressione osservare quanto è stato fatto in questo lungo periodo temporale e fa commuovere l’idea di affiancare le ricorrenze ad un altro disastro come quello che sta vivendo la Romagna in questi giorni. Lo ha detto anche Stefano Bonaccini nel commentare l’alluvione: «Un altro terremoto».
Una frase che porta con sé l’angoscia per le persone decedute e la necessità di creare un perimetro indispensabile entro cui operare per ridare case agli sfollati e lavoro a chi rischia di perderlo. Perché in queste zone d’Italia il lavoro rimane un punto cardine e coloro che il 20 e 29 maggio 2012 spostavano mattoni delle case crollate e i calcinacci dei capannoni collassati, erano gli stessi che l’altro giorno - dopo essersi messi in salvo - impugnavano vanghe e scope per iniziare la lunga opera di pulizia della Romagna.
La forza di questa regione si misura anche in questi dettagli, ma l’accanimento con cui i cataclismi si abbattono in Emilia Romagna sono ormai storia. Una storia da raccontare, che oggi compie 11 anni e che ha segnato la vita di un lembo d’Italia: c’è un prima e un dopo terremoto, spartiacque storico, economico e sociale. Si è passati dal “non sarà rimborsato nulla” nei primi mesi del governo Monti agli indennizzi abbinati allo stato di avanzamento lavori. C’è un vocabolario che abbiamo iniziato a scoprire e a maneggiare in quei giorni e che ha aumentata la consapevolezza e la necessità di costruire in sicurezza, innalzando la prevenzione. Non è un caso che le istanze di tutela dell’ambiente e una richiesta di minor antropizzazione salga forte e sempre più diffusa: viene fatta per evitare quantomeno altri morti.
Sono stati 28 tra quella notte del 20 maggio e la mattina del 29. Famiglie che ogni anno vanno omaggiate con un ricordo e un pensiero, il medesimo che viene riservato a quelle 361 famiglie che ancora non sono rientrate nelle loro case di allora e che forse non ci torneranno mai più.
Il terremoto in Emilia è stato un banco di prova per il sistema della protezione civile e per le norme governative sui disastri naturali e con il tempo il modello è stato esportato su altre disgrazie. Ormai il perimetro delle ordinanze ha trovato accoglienza in tutti i protocolli operativi e di ordinanze ne arriveranno altre, le ultime emesse dal commissario alla Ricostruzione, Bonaccini. Si tratta degli ultimi atti prima della fine dell’emergenza, che scadrà il 31 dicembre e in 11 anni ha permesso di operare in deroga, con tempi più snelli, di assumere personale nei Comuni, di bloccare i mutui, in altre parole di gestire la situazione imprevista.
Ciò non significa che dal 1 gennaio la ricostruzione sarà conclusa, anzi. I dati parlano di nemmeno il 40% di opere pubbliche completate, e quella sarà la sfida che ogni realtà (pubblica o privata che sia) dovrà gestire in autonomia. Chiese, edifici pubblici, municipi, palazzi comunali: ci sono paesi che hanno perso la loro identità storica e aggregativa e che difficilmente la riconquisteranno nonostante lo sforzo economico sostenuto con i contributi per la rivitalizzazione dei centri storici.
Si tratta di centri dove mancano i servizi e dove la gente non è più abituata ad andare. È un altro mondo rispetto a 11 anni fa, ora ci si sono messe anche l’inflazione, la pandemia e la guerra a generare problemi ulteriori: le materie prime costano, hanno prezzi esorbitanti e chi ancora deve finire di ricostruire vede schizzare verso l’alto i prezzi di tutto il materiale.
Milioni di euro in più, imprevisti ma necessari per un terremoto costato già 7 miliardi.