Il reportage

Viaggio nei paesi allagati della Romagna: «Ho salvato i miei vicini erano sopra un armadio»

Gabriele Canovi
Viaggio nei paesi allagati della Romagna: «Ho salvato i miei vicini erano sopra un armadio»

Giuseppe: «Non ho potuto fare nulla per gli animali, sono morti tutti». Gli angeli del fango lavorano finché c’è luce e qualcuno dona loro il pranzo

21 maggio 2023
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Gli occhi sono diversi, sono cambiati. Gli occhi della gente, da Imola fino al Forlivese. Non sono più scuri di paura, di disperazione: hanno una luce diversa. Sono pieni di determinazione, di forza. Siamo a Faenza: nelle case non c’è più nessuno. Alcune fortunatamente sono solo vuote, ma con mobili, divani e televisori all’interno. In altre non c’è nulla, solo il fango. Le stanze sono vuote, hanno un aspetto spettrale. I muri, bianchi, sporcati dalla melma e con addosso i segni del livello che ha toccato l’acqua. E le persone? Tutte in strada. Davanti ai portoni o alle entrate dei garage. «È casa tua?», domandiamo a Irene Ricci, 25 anni. «No», risponde lei. Le chiediamo di indicarci la proprietaria, lei attende un attimo, si guarda intorno poi alza lo sguardo ed esclama: «Non so chi abita qui, io passavo e mi sono fermata a dare una mano». Già, funziona così. Perfetti sconosciuti legati da un banale “ciao”, da un badile, un paio di guanti e la voglia di dare una mano ripulendo le case. Siamo in via Gaetano Carboni, parallela di via Pietro Orzolari, entrambe laterali di via Angelo Lapi. È il quartiere a ridosso del fiume Lamone, quello che, quando tra martedì e mercoledì ha esondato, sfondando gli argini, ha invaso per primo. Qui si registra la situazione più critica.

Insieme per ripartire

Via Lapi si trova all’interno di una cunetta, al di fuori delle mura storiche, il centro, invece, è rialzato. Tutta l’acqua, nel corso dei giorni, si è accumulata lì, in via Lapi, dove ci sono case, perlopiù villette a piano terra, e piccole attività commerciali. «L’acqua è arrivata a toccare tre metri di altezza – dice Matilde, romana d’origine ma adottata da Faenza, dove ha trovato una casa e un lavoro – inondando fino ai secondi piani delle abitazioni». Matilde, come Irene e tanti, tantissimi coetanei – contarli è impossibile – sono scesi in strada, organizzandosi con i gruppi di amici, per dare una mano. Insieme a lei c’è Damiano, modenese d’adozione arrivato a Faenza proprio dalla città della Ghirlandina «perché conoscevo Irene e sono venuto a darle una mano». Li incontriamo davanti a un negozio di arredamento, si affacciano e chiedono: «Avete bisogno di una mano? Noi ci siamo». L’immagine è la solita: dentro la boutique ci sono alcuni commessi, i titolari e amici con scope e pale e le mani nel fango. Scambiano qualche battuta e ridono insieme: sì, c’è spazio anche per scherzare, d’altronde l’abbiamo detto, i romagnoli sono un popolo speciale. È Matilde a portarci in via Lapi, epicentro dei danni e dei disagi nel Faentino. Lasciandosi alle spalle le mura e scendendo nel quartiere su cui si affaccia il Lamone, si arriva in una piazzetta. O meglio, quella che era una piazzetta. Ora è ricoperta dalla melma e nel cielo risuona il rumore delle vanghe sull’asfalto: grattano il fango e spalano quel liquido marrone verso i tombini. Ai lati della strada e davanti ai portoni, ammassati, divani, sedie, elettrodomestici. Ma anche giochi di società, librerie, collezioni di cd e auto ribaltate. Il fango arriva alle ginocchia, quasi si fa fatica a spostare i piedi che rimangono intrappolati, attaccati al suolo. Parlando con i residenti, non appena diciamo di essere giornalisti loro sorridono, ci chiedono di scattargli una foto ricordo e poi ci dicono, quasi implorando: «Spargete la voce, dite a tutti di venire qui a darci una mano. Ne abbiamo bisogno». Si respira aria di comunità, di fratellanza: davanti a ogni casa, tra via Carboni e Orzolani, ci sono almeno una decina di persone. Pompe, badili, galosce ai piedi e capo chinato. Entriamo in un garage, la melma arriva alle ginocchia. Davanti c’è Giulia, 16 anni, che sta aiutando i suoi genitori a ripulire. Con loro ci sono due amici di Giulia, venuti a dare una mano. Ci fanno entrare in casa: non è rimasto più nulla. «Questa era la nostra sala giochi – racconta il papà della ragazzina – ora è vuota». E vuote sono anche le camere da letto, il bagno e la sala: l’acqua ha distrutto tutto. Anche a casa di Nicola, 22 anni, è così: lui e suo padre sono ricoperti di fango dalla testa ai piedi. Non gli è rimasto niente: «Tutti i ricordi sono andati persi – dice Nicola – e poi chissà quanto ci vorrà per ripulire tutto, chissà se ritornerà la normalità». Poi sorride e ci chiede di scattargli una foto insieme a un amico, venuto lì – neanche a dirlo – per dare una mano. Immaginate un’intera comunità riversata in strada, in uno sfondo di luci blu, sirene e volontari della Protezione civile, per aiutare la propria città. C’è addirittura chi improvvisa grigliate, tra una spazzata e l’altra.

«Così li ho salvati»

C’è poi chi, a 74 anni compiuti, in 24 ore ha perso tutto e ha salvato la vita a due persone. «Sono i miei vicini di casa – racconta Giuseppe, che abita in via Carboni –. Era martedì, quando gli argini si sono rotti e il fiume ha esondato. Sono marito e moglie, rispettivamente 96 e 92 anni. Nelle fasi di evacuazione non li avevo visti uscire di casa e nemmeno mezzi di soccorso davanti al loro portone. Così mi è venuto il dubbio, ho avuto una strana sensazione e ho deciso di entrare. Ho urlato “Luciano, luciano, ci sei?”. Subito nessuna risposta, così riprovo e urlo ancora. Pochi istanti dopo sento: “Sono qui”, una voce che arrivava dal piano di sopra. Erano loro, rifugiati sopra l’armadio al secondo piano, il punto più alto della casa. Ma l’armadio stava cedendo. Luciano era lucido, la moglie era già caduta ed era in evidente difficoltà. Non so spiegare il motivo, ma sentivo dentro di me che Luciano e la moglie erano ancora lì dentro». Da qui l’allarme ai vigili del fuoco: «Sono arrivati con il gommone, ci hanno caricati e, pensa, siamo atterrati sulla terrazza. Sì, forse io ho salvato la vita a Luciano e sua moglie, ma i pompieri ci hanno portato in salvo tutti e tre».

Duecento animali morti

Quello che non è riuscito a fare con i suoi animali domestici: «Ne avevo più di 150 – continua Giuseppe – tartarughe, pappagalli, tortore, canarini e pulcini, che belli che erano. Potrei andare avanti all’infinito. Ora ho solo due cani e un gattino e se ce ne fosse qualcun altro vivo non riuscirei a salvarli perché il primo piano è inaccessibile. Ricordo bene quegli attimi di impotenza. Ero lì da solo, al buio, senza cellulare, con la torcia scarica, a vedere i miei animali morire e io non potevo andarli a salvare perché il piano di sopra era irraggiungibile: aspettavo i soccorsi, ma non arrivavano. Mi sentivo abbandonato».

Il pranzo con i volontari

Arrivano le 13, arriva l’ora di pranzo e ci spostiamo nella piazza centrale. I tavoli dei bar aperti si riempiono di gente. Tutti, però, mangiano in piatti e scatolette di plastica: la corrente fatica ancora ad arrivare e le lavastoviglie non vanno. Gli attrezzi, le pale e le vanghe sono appoggiate a terra, a riposo. Seduti sui gradini del duomo, in piazza della Libertà, ci sono Alex e Lorenzo: «Siamo in pausa pranzo – dice il primo ridendo – Chi abbiamo aiutato? Chiunque. Chi aveva bisogno. I miei zii sono rimasti due giorni in casa, senza potere uscire».

Qualcuno, poi, fa compere: «Ma rimango fuori – dice una cliente sulla settantina davanti all’ingresso di un pastificio rivolgendosi al commesso – me lo allunghi lei fuori. Così non sporco». Sì, le attività, alcune, hanno riaperto e ripreso a lavorare. È il caso della “Mangeria del Corso”: al posto della vetrina, c’è un banchetto pieno di cibo. È per i cittadini volontari, che qui possono pranzare a fronte di un’offerta libera. «Purtroppo – dice Maria Grazia Dal Monte – anche noi abbiamo avuto danni, per esempio i motori dei banchi frigoriferi sono sott’acqua e non abbiamo potuto aprire. Fortunatamente, però, i forni e fornelli vanno, così abbiamo deciso di aiutare tutti quelli che a loro volta hanno deciso di dare una mano a Faenza. C’è una solidarietà incredibile, i giovani sono stupendi». Così, Maria Grazia insieme alle sue collaboratrici si è messa ai fornelli preparando lasagne, pasta al pomodoro, polpette e cannelloni per chi è sceso in strada a lavorare. «Abbiamo dato da mangiare a mezza Faenza», dice con il sorriso sul volto. Un sorriso, però, che nasconde il dolore: quel dolore di chi ha saputo delle decine di persone che non ce l’hanno fatta, di chi vede la sua casa cancellata dall’acqua. E infatti, pochi istanti dopo tutto quel dolore riemerge. Maria Grazia scoppia in lacrime e, ansimando tra un singhiozzo e l’altro, dice: «Siamo contenti, siamo contenti che almeno noi ci siamo salvati la pelle». l