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Storie di tre donne modenesi vittime di violenze: «Un collega ossessionato da me Costretta a lasciare il lavoro»

Gabriele Canovi
Storie di tre donne modenesi vittime di violenze: «Un collega ossessionato da me Costretta a lasciare il lavoro»<br type="_moz" />

Tre testimonianze di tre donne: «L’ho detto al capo e mi ha proposto di lavorare da remoto: sono arrabbiata»

26 novembre 2023
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Alice si è sentita «palpare brutalmente il sedere» esattamente di fronte all’uscita di un centro commerciale, poi è stata pedinata da quello sconosciuto che le urlava: “Quanto sei bella?!”; “Sei fidanzata?”, “Non è vero che sei fidanzata dai…”. Poi c’è Teresa. Stava andando a prendere la corriera, inseguita dal suo fidanzato che l’ha sbattuta contro il muro e presa per il collo davanti all’indifferenza dei passanti. «Pensava io stessi andando con un altro, ho chiuso ogni rapporto ma lui continuava a tartassarmi».

E addirittura Gianna, costretta ad abbandonare il proprio posto di lavoro perché stanca di essere diventata l’ossessione di un collega-stalker, perché impaurita che potesse succederle qualcosa e soprattutto perché stanca di non essere tutelata da parte di chi avrebbe dovuto farlo.

Alice, Teresa e Gianna, ovviamente, sono nomi di fantasia, ma le storie sono storie di ragazze, di donne modenesi. Non inventate, o meri esempi. Storie, purtroppo, di vita vera, di esperienze vissute. Storie che le vittime stesse hanno voluto raccontare, trovando immenso coraggio e forza di volontà. Lettere a cuore aperto, piene di dolore, in cui queste donne sono tornate indietro nel tempo, a quei momenti di dolore. Sono messaggi che hanno deciso di inviare alla Gazzetta perché noi abbiamo scelto di dare voce a tutte quelle donne che hanno subito maltrattamenti, catcalling, abusi o altre forme di violenza. Un giornale deve saper fare comunità e deve essere uno strumento utile, cercando di promuoverne la crescita sociale con l’ambizione di recitare un ruolo all’interno della comunità stessa.

È con questo spirito che quattro giorni prima della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne abbiamo lanciato questa iniziativa: creare un contenitore di testimonianze a cui dare voce (in maniera ovviamente anonima per tutelare la privacy di tutte). Per avere aiuto o anche solo per un consiglio bisogna invece rivolgersi ai centri anti-violenza e contattare il numero europeo anti-violenza e stalking “1522”.

«Ho dovuto lasciare il lavoro»
Gianna – questo il nome di fantasia con cui la chiameremo – ci ha inviato una lunga lettera nel quale ripercorre quei mesi diventati un incubo. «Ho dovuto interrompere improvvisamente e in maniera forzata la mia esperienza di servizio civile – scrive – Ero a metà del mio percorso, ma non ce la facevo più».

Il motivo era chiaro: «Uno dei miei colleghi aveva iniziato a sviluppare manie di ossessione e di controllo nei miei confronti – continua – Almeno una volta all’ora controllava cosa stessi facendo venendomi dietro alle spalle, controllava se andavo in bagno e, quando mi assentavo dall’ufficio, mi mandava messaggi per chiedermi come stessi e dove fossi. Mi scriveva fuori dall’orario di lavoro e diverse volte l’ho beccato sbirciare dal mio pc, sull’agenda e sul quaderno su cui prendevo appunti».

Gianna, fortunatamente, riesce a riconoscere subito che quella era di violenza: «Quando mi sono lamentata con il capo, il collega ha iniziato ad assumere toni minacciosi e comportamenti deliranti: piangeva, urlava e poi si ammutoliva – prosegue nella sua lettera – A quel punto ho continuato a parlare di questa situazione con il capo e la dirigente delle risorse umane, entrambi, però, mi hanno semplicemente detto che avrei potuto fare smart working quando non mi sentivo sicura».

Lavorare da remoto a casa: questa l’incredibile soluzione che, chi avrebbe dovuto tutelarla, ha proposto a Gianna: «Hanno aggiunto – ancora lei – che avrebbero chiesto al mio collega di partecipare a qualche workshop sul lavoro di squadra, ma non potevano affiancarli uno psicologo perché “non siamo un centro sociale”». Da qui, non avendo altre alternative, la drastica scelta: «Di fronte a queste misure così limitate e sbagliate, ho deciso di interrompere la mia esperienza perché nell’ultimo periodo vivevo nell’ansia e timore che potesse succedermi qualcosa, oltre che provare un senso continuo di rabbia e disgusto per quella persona».

«Mi strozzava, io non respiravo»
Quello che Teresa ha deciso di raccontare è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’episodio con cui ha capito che doveva mettere la parola “fine” su quella relazione. «Stavo tornando a casa – racconta nella lettera che ci ha inviato – letteralmente, stavo correndo a prendere la corriera. Dietro di me c’era lui: mi stava rincorrendo perché pensava che io stessi andando da un altro». A quel punto l’aggressione: «Eravamo vicino all’istituto Fermi – continua Teresa – Mi ha sbattuto contro un muro, e mi ha preso per il collo. Nessuno è intervenuto. Fortunatamente, a un certo punto, mi ha tolto le mani dal collo, probabilmente per gli sguardi e perché si era accorto io che non respiravo. Da lì ci chiusi ogni tipo di rapporto, ma frequentava la mia stessa scuola».
E l’incubo è andato avanti: «Per un anno intero, finché lui non finì le superiori e se ne andò – conclude – Mi tartassava, mi aspettava fuori da scuola. È stato un anno da incubo, poi sono riuscita a ritrovare la serenità».

«Palpata e pedinata»
L’ultima storia a cui diamo voce è quella di Alice. Ha 28 anni e abita in un comune della provincia. È una ragazza come tante, che ogni mattina si alza, va a lavorare, mangia qualcosa in pausa pranzo, poi torna al lavoro, ogni tanto esce con gli amici e passa del tempo con la sua famiglia.

Ecco, l’episodio di violenza su cui è voluta tornare riguarda proprio una “normale” pausa pranzo. «Vi scrivo sperando che il mio racconto possa aiutare ad evitare queste situazioni in futuro in quanto tristi ed umilianti. È successo meno di un mese fa – inizia nella sua lettera – Per una delle mie solite pause pranzo mi sono recata al centro commerciale GrandEmilia. Purtroppo, uscendo, alla luce del sole con intorno gente che tranquillamente si recava all’interno per fare acquisti, mi sono sentita palpare brutalmente il fondo schiena. Ero al telefono con un amico quando è successo, esattamente di fronte all’uscita principale del centro commerciale. Inizialmente – ammette – mi misi a ridere. Fu la mia prima reazione, ovviamente incontrollata ed incosciente. Sinceramente, credevo fosse stata un’amica. E invece no». Era qualcuno che ha pensato di poter toccare il sedere a una ragazza sconosciuta in un parcheggio, come se la parola “consenso” non esistesse. «Era uno straniero che superandomi mi continuava a dire ripetutamente: “Quanto sei bella?!”. Poi mi chiedeva se fossi fidanzata. Vedevo che continuava la sua marcia ma controllandomi per sapere dove avessi la mia auto. Ho accelerato il passo e mi sono chiusa in macchina. In tutto questo – e conclude – anche il mio amico al telefono che aveva assistito alla situazione si era fortemente preoccupato sentendomi gridare contro questa persona».l

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