Gazzetta di Modena

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L’analisi del caso

Niente ergastolo per motivi “umanamente comprensibili”: «Sentenza difficile da scrivere, la giustizia per natura è fallace»

di Stefano Luppi

	Salvatore Montefusco, Gabriela e Renata Trandafir
Salvatore Montefusco, Gabriela e Renata Trandafir

Il caso Montefusco, analizzato dall’esperto di diritto penale, l’avvocato Guido Sola: «Non possiamo usare logiche “umane” per giudicarla, è un atto tecnico»

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MODENA. «La giustizia dell’uomo è, per sua natura, fallace perché fallace è l’uomo. Premesso che nessuna sentenza potrà mai dire di avere perfettamente fotografato la vera verità storica – perché il processo penale è, appunto, strumento imperfetto – il giudice deve applicare il diritto penale. Detto ciò la sentenza sugli omicidi del giugno 2022 a Cavazzona di Castelfranco certamente merita studio, approfondimento e riflessione».
L’avvocato Guido Sola, esperto di diritto penale, è stato presidente della Camera Penale di Modena ed è tra i fondatori del Festival della Giustizia penale: qui riflette sulle motivazioni della sentenza con cui la Corte d’assise di Modena (presieduta dal giudice Ester Russo) ha condannato a trent’anni e non all’ergastolo Salvatore Montefusco, reo di aver ucciso la moglie, Gabriela Trandafir di 47 anni e la figlia 22enne Renata.

Avvocato Sola, cosa pensa di questa sentenza?

«È una sentenza complessa e, posso immaginare, difficile da scrivere: passa in rassegna numerosi aspetti, in fatto e in diritto, della vicenda. Appunto merita approfondimenti e anzitutto va detto che non è certamente una sentenza da giudicarsi negativamente applicando logiche umane che, per quanto assolutamente comprensibili, non possono né devono contaminare l’habitat giuridico che ha portano alle motivazioni espresse dai giudici. Il diritto è anche e soprattutto “tecnica” e “tecnico” deve sempre essere il giudizio sulle sentenze, di condanna o di assoluzione che siano».

A colpire molti sono le frasi usate dai giudici riferite all’imputato, Montefusco: “attenuanti” come le «nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate» oppure il riferimento ai delitti eseguiti per motivi «umanamente comprensibili». Non sono termini criticabili?

«Il codice penale non indica né suggerisce le formule che il giudice deve utilizzare nella motivazione della sentenza. Per quanto ciò possa essere umanamente difficile da accettare, soprattutto per quanto riguarda vittime o congiunti, il processo penale è e resta un luogo tecnico nell'ambito del quale, proprio sulla base di considerazioni tecniche, il giudice è chiamato a decidere della colpevolezza o non colpevolezza dell’imputato, applicando il diritto penale al caso concreto. Nel fare ciò il giudice deve sempre tenere presenti tutti gli aspetti a prescindere dal fatto che gli stessi possano suonare umanamente sgradevoli quando non addirittura irrispettosi delle varie sensibilità sulla scena processuale. Nel caso di cui mi chiede a venire in rilievo è una sentenza nell’ambito della quale i giudici della corte d’assise hanno giudicato corretto valorizzare, in chiave difensiva, una serie di circostanze – tra le quali anche l’ambito familiare – che hanno condotto a ritenere l’imputato meritevole della concessione delle attenuanti generiche ex art. 62 bis del codice penale. Ripeto che può certamente suonare umanamente sgradevole, ma non può essere questa una buona ragione, ricorrendone gli estremi, per non poter valorizzare in chiave difensiva aspetti quali l’intensità dell’emozione soggettivamente vissuta dall’autore del reato oppure le condotte unilaterali che ne avrebbero determinato l’abnorme e però causale reazione».

Trent’anni di carcere, non pochi, non sono l’ergastolo: non si poteva arrivarci con due femminicidi?

«Il tema è, anche politicamente, delicato. Soprattutto nell’attualità, a fronte di gravi casi di cronaca nera, la politica sembra costantemente affermare che a mancare, anche nell’ottica di tutelare correttamente la collettività, siano le leggi. Ma non è così. Anzi. Il principale problema italiano, da questo punto di vista, è rappresentato proprio dall’irrazionale superfetazione legislativa, soprattutto per quanto riguarda il diritto penale. Ciò impatta negativamente sul sistema giustizia. Senza considerare la gratuita complessità che ne deriva sul piano proprio della quotidiana celebrazione di processi penali che sovente non si celebrano a causa di veri e propri bizantinismi legislativi. Non è la pretesa mancanza delle leggi che, nel caso di specie, ha condotto i giudici della corte d’assiste a giudicare equa la pena di 30 anni di reclusione: giustizia non significa né può significare sacrificare i diritti costituzionalmente garantiti dell’imputato sull’altare di pur umanamente comprensibili, ma giuridicamente irrilevanti, desideri di controparte».

L’accusa, prima della sentenza, aveva scritto che l’imputato «Ha agito come in una battuta di caccia». È un orrore, non crede?

«Le dicevo che la giustizia è fallace, essendo fallace l’uomo e non va dimenticato che anche i giudici sono uomini che nel loro operato analizzano le ragioni proprie delle vittime o parenti delle stesse e al contempo giudicano l’imputato con misura ed equilibrio, sempre presumendone la non colpevolezza così come recita l’articolo 27 della nostra Costituzione. Da questo punto di vista, per quanto a venire qui in rilievo sia concetto squisitamente tecnico e, dunque, difficile da comprendere per i non giuristi, va considerato che la regola “dell’al di là d'ogni ragionevole dubbio” alla luce della quale il giudice deve decidere della colpevolezza o non colpevolezza dell’imputato deve trovare applicazione con riguardo a tutti gli aspetti del caso concreto. Da ciò discende che nel condannare l’imputato, riconoscendolo responsabile del reato di cui è accusato, il giudice può escludere l’applicazione di circostanze aggravanti senza che ciò dal punto di vista giuridico rappresenti in nessun modo una contraddizione in termini. È ovvio – conclude l’avvocato Guido Sola – che quando questo accade, dovendo essere rivista a ribasso, la pena finale pur giuridicamente equa potrebbe non “suonare” soddisfacente alle orecchie di vittime e congiunti».
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