Gazzetta di Modena

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La cerimonia

Giorno della memoria, una medaglia ai soldati che dissero “no” ai nazisti

di Ginevramaria Bianchi

	La cerimonia in San Carlo con i famigliari degli otto internati militari
La cerimonia in San Carlo con i famigliari degli otto internati militari

In San Carlo la consegna della Medaglia d’Onore concessa dal Presidente della Repubblica ai famigliari di otto internati militari modenesi: i loro nomi e le loro storie

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MODENA. Tra le loro mani c’era tutto ciò che rimaneva dei loro cari: le loro notti insonni all’interno dei campi di concentramento, ma anche quelle in cui dormire era l’unica soluzione possibile per non pensare alla fame; i lavori forzati e gli occhi stracolmi degli orrori che gli si ponevano davanti. Tutto era racchiuso lì, in quelle medaglie della memoria. Erano otto in tutto, ed è forse scontato riportare che, su quella patina dorata incisa col nome delle vittime, sono cascate delle lacrime. Era il pianto dei figli di quella generazione che l’orrore nazista l’ha vissuto sulla propria pelle, il pianto di chi finalmente, a distanza di ottanta anni, è riuscito a far rendere giustizia alle ingiustizie subite dai loro padri. È in merito a questa consegna speciale che oggi, nella chiesa San Carlo di Modena, tutti i famigliari delle vittime modenesi si sono riunite per la Giornata della Memoria. Una menzione speciale per il coraggio dei loro cari in un’ occasione che ha visto la partecipazione di istituzioni e studenti.

Gli otto internati militari modenesi

  1. Graziano Bazzani, di San Martino di Montese, era un contadino, soldato di Fanteria nella Divisione Acqui. Venne catturato a Cefalonia il 13 settembre 1943. Fu tra i dieci soldati della Divisione Acqui di Montese che sopravvissero alla strage di Cefalonia e Corfù, mentre altri cinque montesini della Acqui perirono o durante i combattimenti o nell’affondamento delle navi per il trasporto dei catturati. Raccontò di essere sopravvissuto alla fame grazie ad un internato conterraneo che lavorava all’esterno del lager, in un mulino e gli portava di nascosto modeste quantità di farina che poi impastava e cuoceva nella stufa.
  2. Emidio Borri, di Castel di Casio (Bologna), aveva 17 anni quando fu catturato a Castel di Casio durante un rastrellamento di civili. Subito portato in camion a Pistoia insieme ad un’altra trentina di rastrellati, finì a Dachau, dopo un viaggio dentro a vagoni bestiame. Destinato al “lavoro coatto” in una fonderia dello stabilimento Bmw. Malato di Tbc, dopo la liberazione del campo rientrò in Italia a piedi e con mezzi di fortuna.
  3. Benvenuto Calza, contadino di Ravarino, era un granatiere: fu catturato e internato, morendo vicino a Bathorn. La documentazione tedesca parla di morte avvenuta “nell’ Ospedale di Dusseldorf dello Stalag VI J” che era soltanto una misera infermeria, al pari di quella del vicino Stalag VI D di Dortmund definita dal cappellano militare don Giuseppe Barbero “l’infame infermeria per prigionieri, dove ai medici prigionieri italiani che si prodigavano per salvare le vite dei commilitoni, era loro proibito scrivere la vera diagnosi sulle centinaia di decessi: morto per fame”.
  4. Armando Foli, nato negli Usa da genitori italiani, gestiva un bar e trattoria a Fanano. Nel campo di prigionia il 24 aprile 1945 scrisse una poesia che sul finale ben rappresenta il suo stato d’animo da: “Ma se un giorno finirà / Questa vita disagiata / Vendicarmi saprò / E per sempre odierò / questa razza inumana”. Il 27 aprile 1985 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini gli conferì il Diploma d’Onore come combattente per la libertà d’Italia.
  5. Derno Fontanini era un contadino di Fontanaluccia di Frassinoro, fu catturato dai tedeschi e avviato all’internamento nei territori del Reich. Causa malattia fu rimpatriato dalla prigionia il 26 gennaio 1945. L’archivio Arolsen conserva la documentazione dove l’internato operò come “lavoratore coatto”.
  6. Guerrino Rosi, contadino di Costrignano di Palagano, si trovava in congedo quando il 14 gennaio 1944 entrò nella formazione partigiana “Brigata Dragone”. Fu catturato durante il rastrellamento del 18 marzo 1944 che si concluse con la strage di Monchio Costrignano e Susano. Mentre il fratello Dante venne catturato a Costrignano e giustiziato nel pomeriggio a Monchio, Guerrino fu preso verosimilmente nella zona periferica del rastrellamento da truppe nazifasciste che affiancavano la formazione “Hermann Göring” la quale non fece invece prigionieri. Nel 1980 il Ministero della Difesa lo autorizzò a fregiarsi del distintivo d’onore per i Patrioti Volontari della Libertà.
  7. Pellegrino Sassatelli, contadino di Casola di Montefiorino, fu deportato in Polonia. Le pessime condizioni di quel campo lo fecero ben presto ammalare di pleurite e peribronchite. Venne poi liberato dalle forze armate russe e rientrò a casa. Pellegrino modificò la piastrina di prigionia e con il cuoio ne ricavò un orologio, attualmente conservato in famiglia. Al rientro dalla prigionia gli venne riconosciuta l’invalidità di guerra ed i postumi delle malattie polmonari contratte in Germania.
  8. Renzo Solmi di Castelvetro lavorava in un caseificio. Già reduce della Campagna di Russia, fu catturato a Bolzano. Dopo la liberazione, la Croce Rossa fece arrivare alla famiglia queste parole: “In data 6.8.1945 Radio Mosca ha annunciato che il soldato Solmi Renzo gode ottima salute, è cordialmente assistito dalle truppe sovietiche e invia infiniti saluti a tutta la famiglia”.

La cerimonia in San Carlo

A rompere il ghiaccio, in mezzo alla chiesa gremita, è stato il sindaco Massimo Mezzetti, che ha ricordato l'importanza di una memoria viva: «Non dobbiamo solo commemorare, ma vivere la memoria, soprattutto per le generazioni future. Oggi, purtroppo, c'è più polemica che riflessione. Il caso di Liliana Segre lo dimostra: una donna che ha subito odio sui social per una questione che è più grande di lei. Il rispetto e l'ascolto sono essenziali per la convivenza civile. Ed è sempre più necessario che ci ricordiamo come esercitarli». E prima della premiazione, sono intervenuti anche il proprietario di casa Vittorio Lugli, presidente della Fondazione San Carlo, e Davide Assael, presidente dell’associazione Lech Lechà, che hanno voluto sottolineare a loro volta l’importanza della giornata: «La memoria ha senso solo se passa ai giovani, per questo sono davvero contento di vedere così tanti studenti qui presenti. Loro devono agire per costruire un mondo migliore», ha affermato Lugli commosso davanti alla platea. «La memoria non è solo sofferenza, ma un monito per comprendere il genocidio passato e prevenire quelli futuri e quelli in atto. È proprio per questo che oggi, oltre alla cerimonia per i cari dei defunti, andremo ad approfondire il tema del vocabolario di quell'orrore che è stato l’Olocausto. La narrazione di questi fatti storici deve cambiare e adattarsi ai tempi, in modo da continuare ad allenare la memoria ed evitare di ricadere sui nostri passi», ha aggiunto Assael.

La consegna delle medaglie

Dopo gli interventi hanno iniziato a fare i primi nomi al microfono: la cerimonia aveva finalmente inizio. Hanno citato Graziano Bazzani, Emidio Borri, Benvenuto Calza; poi Armando Foli, Derno Fontanini, Guerrino Rosi, Pellegrino Sassatelli e, infine, Renzo Solmi. A ritirare le loro medaglie c'erano i figli, commossi davanti alle immagini proiettate dei cari defunti e alle loro storie. Dopo aver alzato al cielo le medaglie, una ad una, in chiesa ha iniziato a esserci sempre più silenzio. Un silenzio rispettoso, potente, che ha, di fatto, concluso la cerimonia, che è stata proprio quello che si era prefissata di essere: un ricordo che continua a vivere nelle storie di chi ha subito e resistito agli orrori del passato. Un monito per il presente e il futuro.