Sopravvissuto ai lager nazisti: Vito Barbolini si è spento a 104 anni
Nato a Fiorano, venne chiamato in guerra il giorno del suo 19esimo compleanno. Il suo racconto alla Gazzetta: «Obbligati a marciare: 150 chilometri in due giorni fino in Austria»
FIORANO. Appena due settimane fa aveva spento 104 candeline, circondato dall’affetto della sua numerosa famiglia. E venerdì, nel giorno di San Geminiano, se ne è andato nella sua casa di Fiorano. Si chiamava Vito Barbolini, ed era sopravvissuto ai lager nazisti. Lucido fino alla fine, ricordava tutto del periodo della guerra. Un’esperienza che gli è valsa la medaglia d’onore. Sul ricordino realizzato per il suo funerale, che sarà celebrato martedì, ha voluto che venisse incisa una frase: «In memoria del più anziano fioranese nato, cresciuto e vissuto 104 anni con semplicità e orgoglio sulla propria terra».
La sua vita
Semplicità e orgoglio. Queste due parole ben descrivono il percorso di vita di Barbolini, che ha sempre vissuto nella stessa casa in via Ghiarola Nuova a Fiorano, ricostruita dopo che era stata distrutta dalla guerra e che qualche anno fa – era il 2021 – diceva alla Gazzetta: «Non bisogna sovraccaricarsi, ognuno deve seguire il proprio corpo senza voler strafare». E, questo, era forse uno dei segreti della sua longevità, che gli ha permesso di fare l’ultima festa il 19 gennaio, un giorno prima rispetto al suo compleanno. Una vita lunga, ricca di esperienze difficili ma anche piena di passioni e di amore. Una vita che aveva scelto di condividere raccontandosi al nostro giornale: «Il 20 gennaio 1940 era il giorno del mio diciannovesimo compleanno e fu anche il giorno in cui venni chiamato in guerra. Piansi».
La guerra
Un conflitto mondiale, il peggiore, che però non ha toccato un paese della Val Venosta al confine con la Svizzera: «Ero stato assegnato ai Guardia Frontiera. Credevo di dover raggiungere il fronte, in realtà andai a Malles. Per tre anni la vita fu tranquilla: c’erano cibo, giubbotti caldi e la gente del posto era gentile». Vito non aveva alcuna intenzione di far carriera militare: «Ero bravo a sparare, ma quando fecero le prove per diventare tiratore scelto mirai apposta sugli alberi. Non provavo alcun fascino per la guerra». Ma poi fu la guerra a bussare alle porte della sua vita: «La mattina del 9 settembre 1943 venimmo svegliati dai tedeschi con i mitra. Ci arrendemmo, non c’era altro da fare». Vito non sapeva che il giorno prima il maresciallo Badoglio aveva annunciato l’armistizio: «Nessuno ci aveva informato. Tutti i 200 soldati italiani di stanza a Malles vennero catturati, me compreso. E ci obbligarono a marciare: 150 chilometri in due giorni per arrivare in Austria dove siamo stati caricati su un treno, 80 su un vagone. Di giorno eravamo fermi negli scali merce, di notte si viaggiava. Durante una delle soste ci diedero del the: non lo avevo mai bevuto, ero curioso. Pensai che quella bevanda sofisticata in realtà sapeva di fieno. Se non altro era caldo».
In Polonia
Per un breve periodo Vito e gli altri italiani vissero in uno stammlager vicino alla Polonia, raccogliendo patate assieme ad altri 2000 soldati, tra cui russi e polacchi. Poi venne trasferito: «A Colonia. Dormivamo in cento in una baracca». Vito e gli altri vengono obbligati a lavorare alla Ford, dove si realizzavano furgoni. Iniziano i due anni più duri.
«In fabbrica c’erano turni di 12 ore al giorno. Ero addetto al tornio semiautomatico; non era un lavoro duro ma richiedeva grande precisione. Ogni giorno i miei pezzi venivano controllati da una addetta. Quando sbagliavo, lei le prime volte si arrabbiava poi le dissi: “No essen”». Ovvero niente mangiare. Come a dire: «Se non mangio, non posso lavorare bene». La razione giornaliera per Vito era due fette di pane con un po’ di strutto la mattina e due la sera. Con il passare del tempo era arrivato a pesare 41 chili. Così quella donna gli portava qualcosa da mangiare, ma poi un tedesco delle Ss la scoprì e le cambiò posizione. «Per aumentare la razione rubavo i mozziconi di sigaretta e li barattavo con il pane di altri che preferivano il fumare al mangiare. Si sopravvive anche così. E proteggendosi dal freddo e dai pidocchi, che possono ucciderti. Per questo tenevo pulita quell’unica camicia di flanella che mi era rimasta dal servizio militare: anche se poi una volta la lavai nell’acqua del tornio e si rovinò. Dovetti ricucirla con i sacchi di juta».
Tra aneddoti e bombardamenti
Vito era memoria di tantissimi aneddoti: «Qualcuno provò a scappare: venne catturato e mandato nei campi di prigionia politici. Io cercavo di sopravvivere. Dopo un anno divenni “civile”, ma dovevo continuare a lavorare lì».
Intanto la guerra va avanti. Gli americani bombardano Colonia: «Ci mandarono a riparare una ferrovia: i binari erano finiti sui tetti delle case. Mentre eravamo lì sentii altri aerei arrivare e gridai: “Al riparo”. E ci salvammo. Un’altra volta eravamo dentro a un asilo e una granata mi ferì a una gamba: i tedeschi, in quello che non era un ospedale, ma un macello, volevano amputarla, dissi di no che preferivo morire». Dopo poco i tedeschi si ritirarono e furono gli americani a curarlo: «Ci lasciavano grande libertà e ci davano alimenti confezionati: molti miei compagni ne mangiavano troppi e stavano male. Io con i pochi marchi guadagnati andavo in una fattoria e compravo il latte». Poi arrivarono gli inglesi a controllare la zona: «Molto severi. Due miei compagni vennero uccisi perché scoperti fuori di notte durante il coprifuoco: erano andati a trovare delle ragazze nella fattoria».
Il ritorno in Italia
Vito può far ritorno in Italia solo nel settembre del 1945: «Ancora in treno, via Svizzera. Guardavamo quei paesaggi verdi e restavamo estasiati. Ma quel viaggio fu triste, perché due morirono per essersi sporti troppo dal vagone».
L’8 settembre Fiorano è in festa per la Madonna quando un ragazzo magro, con la barba lunga e i vestiti sgualciti arriva a casa: “L’è al prisuner”, gridano. È il prigioniero. Vito può riabbracciare i suoi genitori e i suoi fratelli».
La famiglia
«Fu una sorpresa – aveva raccontato la figlia Morena – perché lui aveva mandato una lettera ad aprile, dopo la Liberazione, dicendo che era vivo e sarebbe tornato. Dopo non si era saputo più nulla. Per la nostra famiglia, l’8 settembre ha un valore in più, è da quel giorno che ha avuto inizio la nostra storia».
Sì, perché lì, in quel paese che gli ha dato i natali, ha cominciato la sua nuova vita. Una vita piena di passioni, la sua. E proprio una di queste passioni gli ha permesso di conoscere sua moglie: il ballo. Ballando il liscio ha incontrato Anna Cavani, che nel 1956 ha sposato. Lei morirà nel ’97. Dal loro matrimonio nasceranno Angelo, Gianni e Morena. Poi i nipoti Alan, Enrico, Gabriele, Giorgia e Laura. E i pronipoti Fabio e Silvia. Con anche le nuore Rosa e Rosanna e il genero Mauro, la famiglia Barbolini – Vito lascia anche il fratello Leo e la sorella Maria – , come detto, il 19 si è stretta intorno a Vito per festeggiarlo e ora è pronta a dargli l’ultimo addio: «Nel dolore del momento – così i familiari – ci conforta il pensiero che hai raggiunto il traguardo a cui tenevi tanto diventare il fioranese più anziano, buon viaggio caro Vito ci mancherai». Lui, che fino a qualche anno fa guidava ancora e che ha continuato per lungo tempo a occuparsi delle sue galline e a leggere tutti i giorni il giornale, tenendosi informato, ricordava con estrema lucidità gli anni della sua giovinezza. I funerali ci saranno martedì alle 15 nella parrocchia di Fiorano.
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