Ilaria Cucchi in visita al carcere Sant’Anna: «Quindici detenuti a rischio suicidio»
La senatrice di Avs ha fatto tappa a Modena per un’ispezione a sorpresa all’interno della struttura: «Ho visto grande sofferenza. I problemi? Pochi agenti e sovraffollamento, siamo vicini al collasso»
MODENA. «Mi hanno detto che ci sono quindici detenuti a rischio suicidio. Poi hanno aggiunto che secondo loro si tratta di un numero molto basso». Queste sono state le prime parole della senatrice di Avs Ilaria Cucchi, appena uscita dalla casa circondariale Sant’Anna dopo un’ispezione a sorpresa. In un momento di emergenza per Modena - sono quattro i suicidi dall’inizio dell’anno -, l’attivista e politica ci racconta l’ingiustizia della giustizia, che si consuma, seppur celata alla vista, a un passo da noi.
Cosa si è trovata davanti all’interno del carcere di Modena?
«Ho visto grande sofferenza. I problemi sono gli stessi delle altre carceri: sovraffollamento e sottodimensionamento degli agenti, i quali non hanno la giusta preparazione per gestire una situazione ormai al collasso. Un fatto in particolare avviene a Modena, e l’ho notato anche in altri istituti penitenziari emiliani: esistono chat, di cui fanno parte i direttori delle varie carceri, che vengono sfruttate per comunicare quanti sono i detenuti a rischio suicidio. Per Modena parliamo di quindici persone, e mi hanno detto che sono pochi. Per me uno è già troppo. Mi chiedo come si faccia, da operatore, psicologo o direttore, ad andare a letto la sera sapendo che ci sono quindici persone che potrebbero uccidersi».
L’aggravamento delle condizioni dei detenuti è sintomo di un cambio di rotta generale, dovuto al governo attuale?
«Certo, perché le carceri sono lo specchio della nostra società. I valori e le idee che porta avanti questo governo non possono che peggiorare le cose. Il famoso decreto “svuota carceri” prometteva l’incremento del numero di strutture, ma questo non è ancora accaduto e io vorrei sapere come e in che tempi avverrà. Inoltre l’introduzione continua di nuovi reati da parte del governo sta causando un aumento costante dei detenuti, aumento che continuerà finché non ci impegneremo per una vera inversione di rotta. Potremmo investire sul carcere invece che sui cpr in Albania, per esempio».
Viene alla mente la vicenda di Reggio, il cui tribunale ha decretato che quella avvenuta nel carcere della città non era tortura, nonostante i video. Viene in mente il nome di Moussa Balde, arrestato nonostante fosse stato vittima di un’aggressione, poi morto in circostanze misteriose. Quante persone immigrate, senza nome, spariscono nel nulla?
«Valeva per mio fratello e oggi vale per persone che scappano da situazioni terribili e che una volta arrivate qui incontrano solo ostilità, oltre ad essere descritte come un rischio per gli onesti cittadini. Mio fratello aveva un nome, eppure non se ne parlava al di fuori di quella cerchia fatta da gente già sensibile a questi temi, mentre la tendenza della stampa era di spersonalizzarlo definendolo “spacciatore”. L’etichetta annulla l’identità della vittima e la relega a luoghi lontano dalla mente e dagli occhi dei benpensanti. Ecco che improvvisamente queste persone vengono reputate meno degne di diritti, e quindi meno degne di vivere».
Un cambiamento culturale da una prospettiva puramente punitiva a una davvero riabilitativa è auspicabile, ma a volte sembra di non avere più tempo: troppe persone perdono la vita. Ci sono misure pratiche che si possono applicare, come le bodycam?
«Il primo atto ufficiale che ho fatto una volta divenuta senatrice è stato proprio per l’introduzione delle bodycam e dei codici identificativi nel nostro paese. Siamo gli ultimi a non applicare questa misura, un po’ come accadeva per il reato di tortura: siccome bisogna negare fino alla morte che i poliziotti a volte commettono reati allora evitiamo di applicare misure che sarebbero anche a tutela degli agenti. Oggi le bodycam ci sono, ma sono poche e non sono obbligatorie; si usano in modo discrezionale e questo è solo controproducente perché vengono accese o spente a seconda del momento».
Come si può fare rieducazione in ambienti che somigliano a gironi infernali?
«Il carcere ha giustamente un ruolo punitivo, ma la nostra Costituzione dice che deve avere anche un ruolo riabilitativo, aspetto che in questo momento sembra completamente ignorato se non per il buon cuore di associazioni e volontari, che ogni giorno si fanno carico del ruolo delle istituzioni. Inoltre sono sempre di più i detenuti affetti da disturbi psichiatrici, presenti al momento dell’ingresso o sviluppati dopo. Questo è il fallimento dello stato: sono individui che diventano un disagio per loro stessi, per gli altri reclusi e per gli agenti. Ciascun cittadino dovrebbe vedere con i propri occhi per capire di cosa parlo, per capire che le persone detenute sono le ultime della società e che per loro dobbiamo lottare».
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