Mostro di Modena, la famiglia di una delle vittime: «Indagate ancora, nuovi elementi»
Anna Maria Palermo aveva 20 anni e fu trovata morta in un canale a Corlo nel 1994. I parenti, tramite l’avvocato Iannuccelli, chiedono l’analisi dei reperti sequestrati a 31 anni dalla tragedia
MODENA. Due siringhe con sangue non attribuito a nessuno, un fazzoletto sporco di rossetto. Da questi e altri reperti sequestrati all’epoca dell’omicidio, in quegli anni in cui Modena era terrorizzata dalla possibile esistenza di un serial killer, la famiglia di Anna Maria Palermo chiede di ripartire. Il suo cadavere venne trovato a Corlo di Formigine, in un canale. Colpita al petto con dodici coltellate. Aveva vent’anni, ed è una delle vittime del “Mostro di Modena”. E adesso, a distanza di 31 anni, i familiari chiedono alla procura di riaprire le indagini.
L’esperta di “cold case” assiste i familiari
Lo fanno tramite il loro legale, l’avvocato Barbara Iannuccelli, esperta di cold case (ad esempio, si è occupata del caso di Cristina Golinucci, scomparsa a Cesena nel 1992). Una richiesta che arriva anche e soprattutto alla luce delle nuove tecnologie che, secondo Iannuccelli, potrebbero consentire di rilevare elementi utili a trovare finalmente una risposta a questo caso ancora risolto, come quello delle altre donne – otto quelle accertate – che furono uccise per mano del serial killer. Killer la cui esistenza fu ipotizzata per la prima volta da Pierluigi Salinaro, all’epoca cronista di cronaca nera alla Gazzetta di Modena. Furono otto gli omicidi tra il 1983 e il 1995 a Modena. Donne “ai margini”, molte prostitute o tossicodipendenti. All’epoca la procura portò avanti otto indagini diverse, non allargando lo sguardo all’insieme.
Il caso di Anna Maria Palermo
E il tentativo effettuato negli anni scorsi di unire i punti non ha portato a nulla. Tra le vittime, il caso di Anna Maria Palermo ha avuto un iter diverso dagli altri. Per lei era stato individuato un presunto assassino, un ex ciclista professionista che era finito a processo davanti alla Corte d’Assise ma che alla fine venne assolto. Dal giorno del ritrovamento sono trascorsi trentuno anni, anni in cui la famiglia non si è mai arresa.
L’avvocato Iannuccelli
«Sono stata contattata vista la mia esperienza sui cold case – dichiara l’avvocato Iannuccelli –. Riteniamo che all’epoca ci fu un grande condizionamento sulla figura di un presunto serial killer, cercando di trovare similitudini tra tanti omicidi. E così nessuna di queste ragazze ha avuto giustizia, perché per nessuna di loro si è scavato davvero fino in fondo». Il legale è pronto a depositare in procura un fascicolo con elementi in cui si chiede a gran voce di effettuare ulteriori accertamenti. Tre pagine con un elenco di reperti che hanno attirato l’attenzione dell’avvocato, affiancato da un team tecnico di esperti: la genetista dottoressa Marina Baldi, il professor Armando Palmegiani e la professoressa Valentina Marsella. «Insieme abbiamo ritenuto opportuno depositare un’istanza di riapertura con la richiesta di analizzare tutti questi reperti sequestrati ai tempi dell’omicidio dal luogo del delitto. Sempre che ci siano e siano utilizzabili».
Il mistero
I dubbi sono tanti, le risposte sono attese da una vita: «Il medico legale parla di lividi di afferramento sugli avambracci e coltellate. Questo – sostiene Iannuccelli – potrebbe fare pensare che sulla scena del crimine ci fossero almeno due persone. È possibile, ad esempio, che una la tenesse mentre l’altra la accoltellava». Tra i reperti catalogati e pronti per arrivare nel fascicolo sul tavolo della procura anche «due siringhe rinvenute sul luogo del delitto, sulle quali ci sono due tipi di sangue diversi tra loro e non attribuibili a quello della vittima. Di chi è questo sangue? C’era anche un fazzolettino con rossetto che non era quello di Anna Maria. E allora quante persone c’erano lì? Il suo assassino ha firmato questo delitto lasciando tracce biologiche. Sicuramente ci furono limiti dovuti alle tecnologie dell’epoca, ma anche a come vennero svolte le indagini. Ad esempio, non troviamo agli atti nessuna comparazione del sangue sulle siringhe con quello delle altre persone che in qualche modo furono coinvolte in questi casi. La speranza è che con le tecnologie di cui siamo in possesso adesso si possa trovare qualche risposta per una giovane uccisa a soli vent’anni».