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Giustizia

Uccise moglie e figliastra, ergastolo per Montefusco: cancellati i «motivi umanamente comprensibili»

di Stefania Piscitello

	Salvatore Montefusco, Gabriela e Renata Trandafir
Salvatore Montefusco, Gabriela e Renata Trandafir

La Corte d’appello di Bologna ha riformato la sentenza di primo grado, in cui l’uomo aveva beneficiato delle attenuanti generiche ricevendo una condanna a 30 anni. Gabriela Trandafir e la figlia Renata erano state uccise a fucilate alla Cavazzona

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CASTELFRANCO. Salvatore Montefusco è stato condannato all’ergastolo, più un anno di isolamento diurno. Lo ha deciso oggi – lunedì 15 settembre – la Corte d’appello di Bologna, riformando la condanna a trent’anni in primo grado. «Ha ucciso per motivi umanamente comprensibili», aveva scritto il giudice nelle motivazioni della sentenza di ottobre 2024. Quei motivi umanamente comprensibili che i familiari delle due vittime – la moglie di Montefusco, la 47enne Gabriela Trandafir, e la figlia di lei Renata, che di anni ne aveva 22 – non avevano invece compreso. Era stata una mattanza. L’unico sopravvissuto era stato il figlio, allora minorenne, che dopo avere provato a difendere la madre, era andato in strada a chiedere aiuto. Era il 13 giugno 2022. Moglie e figlia uccise a fucilate. I familiari, parte civile nel processo, in aula sono stati assistiti dall’avvocato Barbara Iannuccelli: «C’è una grandissima soddisfazione dei familiari che non sopportavano che ci fosse stato un bilanciamento tra attenuanti generiche e aggravanti e non hanno sopportato di leggere che questo duplice femminicidio è stato commesso per motivi umanamente comprensibili. Siamo distrutti ma felici».

Il primo grado

La procura aveva chiesto l’ergastolo in primo grado: «Ha agito come in una battuta di caccia», aveva ribadito in aula il pm Giuseppe di Giorgio. Montefusco però era stato condannato a trent’anni.

Erano state le motivazioni della sentenza, in particolare a fare discutere. La Corte aveva riconosciuto le attenuanti generiche in ragione «della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l'autore a commettere il fatto reato». Per la Corte, l’imputato, «arrivato incensurato a 70 anni non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate» tra gli abitanti della casa dove vivevano «e all'esclusivo fine di difendere e proteggere il proprio figlio e le sue proprietà». Motivazioni che erano state duramente contestate dalla procura di Modena, secondo la quale la «comprensibilità umana» per la quale la Corte ha optato per la condanna a trent’anni, «appare non solo assolutamente infelice, ma anche del tutto non condivisibile, neppure ove formulato da una giuria popolare». La procura aveva criticato il giudice che «non deve formulare valutazioni di soggettiva e opinabile “comprensione” del reato, ma cercare e argomentare in maniera convincente la sussistenza di elementi, oggettivi o soggettivi, che possano motivatamente influire sulla quantificazione della pena. Tanto più di fronte a episodi di inaudita violenza con i quali viene tolta la vita a due donne, madre e figlia, con le quali l'omicida aveva in corso un procedimento di separazione». La procura aveva continuato: «Con completo stravolgimento del senso comune e dei principi normativi internazionali, che induce a condannare comportamenti di aggressione nei confronti di soggetti deboli, soprattutto ove commessi nell'ambito delle relazioni familiari e affettive, la sentenza giunge a gettare uno sguardo indulgente sul duplice omicidio proprio in quanto avvenuto in contesto domestico».

L’orrore alla Cavazzona

Durante il processo di primo grado, l’imprenditore era stato ascoltato in aula. «Quando è arrivata la macchina per prima è scesa Renata. Poi mia figlia ha cominciato a offendermi un’altra volta, a dirmi: “Adesso te ne vai, adesso hai finito”. Non c’ho visto più. Sono andato al casotto (quello in cui c’era il fucile usato per uccidere le donne, ndr). Ho detto: “La casa di chi è adesso?”. Gliel’ho detto sette volte. Lei quando si è resa conto che avevo il fucile si è messa a correre».

La ragazza quindi era fuggita nel cortile. «Sono 55 anni che vado a caccia – aveva aggiunto Montefusco – so sparare bene». Il 71enne aveva caricato il fucile: «Ci siamo offesi un po’, la madre sorrideva. Poi quando Renata si è resa conto che avevo il fucile è scappata e io ho iniziato a sparare ma senza mirare. Ho sparato un colpo a mia figlia». Nel frattempo Gabriela aveva iniziato a gridare: «Poi ho sentito un rumore e ho sparato un altro colpo verso Renata ma senza mai guardarla. Se avessi voluto farle secche, “pum pum”. Due colpi e basta, e avevo finito». Poi la 47enne era fuggita.

«Mi sono risvegliato – così Montefusco – quando si è affacciata al balcone. Ho sparato d’istinto ma senza mirare. Poi sono entrato in casa, ho visto il sangue e ho seguito le tracce». A quel punto il 72enne aveva raggiunto la camera del figlio minorenne, la porta era aperta. «Mio figlio era con il telefono in mano e mia moglie era lì. Ho intuito che stava chiamando i carabinieri. Ho detto: “Sto ammazzando mia moglie e mia figlia”. Poi ho detto a mio figlio: “Spostati o ammazzo anche te”. Ho alzato il fucile, la madre si nascondeva dietro di lui. Quando mi sono abbassato, nella tensione ho sentito un “fluido” di sangue bollente qua – lo dice toccandosi la testa – Ho sentito solo il calore. Poi mi è partita una fucilata in automatico».