Cinquant’anni fa il tentato rapimento di Enzo Ferrari: «Ecco come lo sventammo»
Il leggendario poliziotto Giuseppe Zaccaria ricorda quel 25 ottobre 1975. Il Drake era dal barbiere, fuori l’aspettavano quattro del clan dei Marsigliesi: «Vidi sulla mano di uno di loro un tatuaggio da carcere di massima sicurezza, uno scappò ma riuscii a bloccarlo»
MODENA. Dino Tagliazucchi, il fedele autista, aprì la porta della Fiat 131 blindata color carta da zucchero al Commendatore, un’elegante berlina ma anche un bolide capace di raggiungere i 240 km/h. Poche centinaia di metri di tragitto in centro a Modena, da largo Garibaldi fino alla barberia di corso Canalgrande, dove Massimo d’Elia officiava un rito mattutino a cui Enzo Ferrari non rinunciava mai. Era la mattina del 25 ottobre 1975, giusto 50 anni fa oggi. Il giorno in cui tentarono di rapire il fondatore della casa di Maranello. Il sequestro fu sventato da due poliziotti con una grande capacità di osservazione e prontezza d’intervento. Da uno in particolare, Giuseppe “Pino” Zaccaria, classe 1942. Zaccaria ha ricordato più volte, anche sulla Gazzetta di Modena, quanto accadde quel giorno.
L’intervento
«All’epoca, sottufficiale, ero nella Squadra Mobile di Modena. Quel giorno mentre passavo a piedi verso le 10.30 per un controllo in corso Canalgrande con il maresciallo Natale Ramondino, noto che ci sono due tipi strani sui 25-30 anni, due forestieri. Stanno appoggiati alle colonne del portico tra l’antiquario e la gelateria K2, ostentando di non conoscersi ma guardando all’interno della barberia al numero 73. Il più aitante aveva un tatuaggio a cinque punte nell’incavo della mano sinistra. Era il tatuaggio che si faceva chi aveva raggiunto un ruolo egemone nei carceri di massima sicurezza. Come i marsigliesi, specialisti nei sequestri. Quando passa un’auto targata Varese, con a bordo quelli che poi abbiamo saputo trasportare le armi per l’irruzione e il contrasto alla scorta di Ferrari, i due scambiano con gli occupanti occhiate furtive. Interveniamo». Enzo Ferrari nella barberia di D’Elia, protetto da Tagliazucchi e dall’ex poliziotto Valdemaro Valentini, non si accorge di niente. Quando gli diranno quello che stava per accadere, reagirà con uno dei suoi paradossi: «E se mi rapiscono, chi paga?». Torniamo a Zaccaria: «Facciamo entrare i due tipi sospetti nell’androne del Notariato e controlliamo i documenti. Carte d’identità fior di conio, intestate a due uomini di Milano, ma loro avevano l’accento romano». Erano più che sospetti. La situazione precipita quando il più grosso dei due cerca di scappare verso il Tribunale. «È un ex pugile dilettante con 35 incontri alle spalle. Lo inseguo, cerco di fermarlo, tento un placcaggio, ruzzoliamo per terra in corso Canalgrande. Conoscevo le arti marziali, lo blocco a fatica. Arrivano il capo della Volante Salvatore Brancati e la scorta di Ferrari, e così non può più nuocere». Il tizio è furioso: spacca a calci i cristalli dell’auto della polizia e farà lo stesso con la vetrata d’ingresso della Questura, tanto da ferirsi e finire in ospedale. «Era un uomo di Albert Bergamelli, Maffeo Bellicini e Jacques Berenguer, i tre boss del clan dei Marsigliesi. Doveva rapire Enzo Ferrari con i suoi complici».
L’epilogo
Il boxeur se la caverà con una piccola condanna ma finirà male, visto che verrà ucciso nel 1982 quando era un esponente, anche se di secondo piano, della Banda della Magliana. Si chiamava Massimo Barbieri. Zaccaria per lo sventato rapimento verrà ringraziato dal Drake. «Il Commendatore mi convocò al ristorante Cavallino di Maranello e mi propose di lavorare per lui. Io gli dissi cortesemente di no, perché avevo sposato la divisa di poliziotto, e non potevo tradirla. Il Commendatore comprese e apprezzò. Ferrari era un esempio di vita. Nel 1979 tentarono poi di profanare la tomba del figlio Dino: lo vidi molto provato in quell’occasione». Negli anni Settanta la criminalità organizzata utilizzava i sequestri di persona come uno dei mezzi più spicci per fare soldi, così come le rapine in banca. Nessuno poteva considerarsi più al sicuro, tantomeno chi disponeva di grandi capitali come imprenditori, industriali, gente dello sport e dello spettacolo. Auto blindate, scorte armate, modifiche delle abitudini di vita di intere famiglie erano usuali in quel periodo. Ricordiamo che nel 2017 venne invece sventato dai carabinieri il tentativo di alcuni criminali che volevano trafugare la salma di Enzo Ferrari dal cimitero di San Cataldo, per chiederne poi il riscatto. Il denaro sarebbe servito a finanziare le attività di una banda che aveva la mente a Orgosolo e ramificazioni in Lombardia, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna. A Modena il gruppo aveva già compiuto i sopralluoghi e studiato orari e vie di fuga. In questi giorni è tra l’altro arrivato in libreria un volume del direttore del periodico Autosprint, Andrea Cordovani, dedicato proprio all’episodio che abbiamo ricordato, di mezzo secolo fa. Si intitola “Il mito da rapire-Enzo Ferrari e l’ombra dei sequestri”.
Oggi
A 83 anni, Giuseppe Zaccaria è tuttora una figura leggendaria nella polizia modenese, e non solo. È stato nominato Cavaliere nel 1990 da Cossiga e nel 2004 da Ciampi Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Ama molto parlare con i giovani, le nuove leve, dei segreti del mestiere e di come si fa una buona indagine. Sono passati cinquant’anni, ma il ricordo di quel 25 ottobre 1975 è ancora vivissimo nella sua memoria, come se fosse ieri: «Quell’intervento a distanza di tanto tempo resta un grande orgoglio – sottolinea – ma non personale. Un orgoglio per tutta la polizia, per aver dimostrato la capacità dello Stato di tutelare i suoi cittadini nel pericolo. Sono grato a quelli che vennero in nostro aiuto permettendoci di arrestare due persone così pericolose. Quella mattina in Corso Canalgrande poteva scoppiare una carneficina. L’abbiamo evitata insieme». Viene da chiedergli se si è mai pentito di aver rifiutato l’offerta del Drake di diventare il capo della sua scorta: «Un mio caro amico in Ferrari, l’ingegner Mauro Forghieri, mi diceva: “Pino, Pino, avresti fatto meglio per la tua famiglia se avessi accettato”. So che avrei guadagnato molto di più, ma non mi sono mai pentito della mia scelta, che mi venne molto naturale. Perché avevo sposato la divisa, e volevo restarle fedele per tutta la vita».
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