Carofiglio: «Le parole sono potere, ecco come usarle senza farsi usare»
L’ex magistrato presenta il nuovo libro: «Il rischio non è la tecnologia, ma la pigrizia»
Le parole possono chiarire o confondere, costruire realtà condivise o generare illusioni tossiche, e occuparsi del linguaggio e della sua qualità è un dovere cruciale dell’etica pubblica.
Nel suo nuovo libro “Con parole precise. Manuale di autodifesa civile” (Feltrinelli), lo scrittore Gianrico Carofiglio, ex magistrato, ci guida dentro l’officina della comunicazione politica e civile, mostrando come slogan, metafore e cornici linguistiche possano diventare strumenti di manipolazione o, al contrario, di liberazione.
Carofiglio ha scritto numerosi saggi, romanzi e racconti, i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo; per Feltrinelli ha pubblicato “Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose” (2020), “La nuova manomissione delle parole” (2021) e “Con parole precise. Manuale di autodifesa civile” (2025).
Carofiglio, quali sono, oggi, le principali trappole del linguaggio a cui siamo talmente assuefatti da non percepirle più come tali?
«Le più insidiose sono tre. La vaghezza, che spaccia per pensiero ciò che è solo nebbia: parole elastiche come “riforma”, “merito”, “decoro” vengono agitate senza definizione, evocando sensazioni invece di chiarire concetti. La falsa precisione, che traveste l’opinione da dato attraverso numeri senza contesto, percentuali arbitrarie, statistiche selettive: un modo elegante per mentire. E poi le metafore padrone: quelle che non illustrano il reale, ma decidono in anticipo come dobbiamo percepirlo. Vorrei soffermarmi su questo terzo punto. Le metafore sono il modo primario con cui comprendiamo il mondo. Non possiamo farne a meno. Ma proprio per questo possono curare o avvelenare. Ci sono metafore vive, oneste, che aprono la mente e aiutano a immaginare il possibile: la democrazia come una “conversazione infinita”, per esempio, è un’immagine che invita a discutere, a imparare, a partecipare. Così la buona comunicazione politica – che è la stessa cosa della buona politica – dovrebbe nutrirsi di metafore veridiche e trasformative, capaci di emozionare non sulle paure (vere o presunte) del passato, ma sulle possibilità del futuro. Metafore che fanno intravedere alternative e scuotono l’inerzia del già detto. Ci sono però metafore tossiche, che restringono il campo visivo e alimentano emozioni distruttive. Quando definiamo la migrazione come “invasione”, abbiamo già scelto da che parte guardare: l’altro diventa una minaccia prima ancora di essere un essere umano con una storia. La logica è quella del nemico da annientare, non dei problemi complessi da risolvere».
Siamo tutti dominati dalla fretta che porta alla superficialità: come si fa a restituire valore e rigore alle parole che dovrebbero nutrire il nostro modo di pensare e di agire?
«Con pratiche quotidiane, non con proclami. Rallentare un momento prima di pubblicare o inoltrare qualcosa. Rileggere ad alta voce: la voce rivela stonature, omissioni, ambiguità che l’occhio tollera. Coltivare la riscrittura, perché la prima stesura è quasi sempre un abbozzo. Chiedersi: cosa voglio dire esattamente? Le parole non servono a riempire spazi, ma a chiarire idee. Ritrovare la precisione linguistica significa recuperare attenzione, e quindi dignità del nostro pensare».
Il suo è un manuale di autodifesa civile: da cosa dobbiamo difenderci? Dalle parole che usiamo male noi cittadini o da quelle del potere?
«Da entrambe, perché sono legate in un circuito continuo. Le parole del potere funzionano solo se incontrano cittadini disabituati al pensiero critico, cioè in sostanza sudditi. La manipolazione vive delle nostre distrazioni e delle nostre scorciatoie mentali: slogan al posto di argomenti, emozioni al posto di ragionamenti.
L’autodifesa civile comincia da ciò che diciamo e pensiamo ogni giorno: dalle piccole verifiche, dal rifiuto delle semplificazioni che ci fanno sentire intelligenti e che invece di precludono la comprensione della complessità e la capacità di influire su essa. Se diventiamo più esigenti con le nostre parole, saremo più esigenti anche con quelle che ascoltiamo».
Nell’era dell’intelligenza artificiale, stiamo perdendo l’intelligenza linguistica?
«Il rischio non è la tecnologia, ma la pigrizia. Se deleghiamo tutto alle macchine, rinunciamo all’esercizio critico che rende vive le parole. Ma l’IA può essere una palestra: possiamo usarla per affinare lo stile, controllare i dati, sperimentare versioni diverse di una stessa frase e capire perché una funziona meglio dell’altra.
È un’occasione per redistribuire l’impegno: meno tempo per frasi ripetitive, più tempo per pensare davvero. L’intelligenza linguistica non è in declino inevitabile: dipende da come scegliamo di allenarla».
Se dovesse indicarne tre, quali sono le parole precise per contrastare l’onnipresente retorica dell’odio, e perché?
«Dignità: ricorda che ogni vita ha lo stesso valore, e che nessuno è un oggetto nelle mani di nessuno. Prova: ci ancora alla realtà, ci costringe a distinguere tra ciò che temiamo e ciò che è vero. Responsabilità: evita l’alibi comodo del “si dice”, ci obbliga a rispondere delle nostre parole e delle conseguenze che producono».
Per garantire la qualità della nostra democrazia, la vera rivoluzione sta nelle parole che usiamo e che scegliamo di non usare?
«Sì. La democrazia non è solo un insieme di regole: è un ambiente narrativo. Se il linguaggio degrada, anche la politica degrada. Se le parole si svuotano o diventano armi, la fiducia si disintegra e la convivenza civile si trasforma in un’arena dove chi urla di più vince. Scegliere le parole, rinunciare a quelle incendiarie, contestare apertamente ed efficacemente le menzogne: è la forma più potente e civile della partecipazione democratica. Le parole sono il nostro primo gesto di cittadinanza. Custodirle significa custodire la libertà di tutti».
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