Elena, da Fossoli ad Auschwitz: fu l’unica bimba arrestata, deportata e morta sola nella Shoah italiana
Fabrizio Rondolino ha raccontato la sua storia in un libro: le venne promesso che in Germania avrebbe riabbracciato mamma e papà, invece fu mandata subito nella camera a gas
CARPI. A dieci anni si crederebbe a chiunque. Agli adulti, alle promesse. A dieci anni si pensa ancora che nel mondo, in qualche modo, si possa avere fiducia. Ed è con quella fiducia che Elena Colombo, bambina ebrea torinese, il 4 aprile 1944 scrive la sua ultima cartolina: «Oggi mi hanno annunciato che finalmente potrò raggiungere i miei genitori! Andrò anch’io nel campo tedesco dove lavorano e così li potrò rivedere e stare con loro. Sono tanto felice!». Il giorno dopo, su un carro bestiame in partenza da Fossoli, quella felicità si spegne. Dopo cinque giorni di viaggio, la bambina arriva ad Auschwitz e viene mandata subito alla camera a gas. Aveva tutto ancora davanti, e nessuno accanto: si tratta dell’unico caso documentato nella Shoah italiana di un bambino che ha dovuto affrontare da solo l’arresto, la deportazione, la morte.
Un libro sulla sua storia
A raccontare la sua storia oggi e a riportare in vita le testimonianze che rimangono di quella bimba durante il suo periodo a Fossoli è Fabrizio Rondolino, giornalista e scrittore, nel libro “Elena” (Giuntina) dopo aver effettuato le ricerche negli archivi della Fondazione Fossoli. «Era la cugina prima di mio padre – racconta – Pensare alla sua storia mi fa sempre venire i brividi, perché, al posto suo, poteva esserci papà. All’epoca, bastava un quarto di sangue ebraico. È una vertigine. E io, mi sento un sopravvissuto indiretto. Così è nato questo libro».
La famiglia Colombo
Torniamo indietro. Torino, anni Trenta. I Colombo sono una famiglia borghese e laica, convintamente monarchica. Il padre, Sandro, è stato tenente dei bombardieri del re e dopo la guerra ha aperto una piccola azienda; la madre, Wanda, è una donna giovane e bella. In casa si parla poco di religione, molto di lavoro, scuola, futuro. L’Italia, fino al 1938, sembra un paese dove tutto è possibile. Poi arrivano le leggi razziali, e per Elena, che ha cinque anni, il mondo si restringe: niente scuola pubblica, niente amici di sempre. Frequenta una scuola ebraica, dove due sue compagne la ricordano come “una bambina vivace, un capobranco con le trecce bionde”. Nel dicembre del ’42 i Colombo si rifugiano a Rivarolo Canavese, poi su per le montagne di Forno, nascosti in una baita e protetti da un parroco e dai partigiani del Monte Soglio. Ma l’8 dicembre 1943 arrivano i tedeschi. Dopo due giorni di battaglia, diciotto partigiani vengono fucilati. Sandro, Wanda ed Elena vengono arrestati. A Torino i genitori vengono incarcerati e deportati subito ad Auschwitz, senza più tornare. Elena, invece, viene affidata a una famiglia amica. «E qui avviene l’inspiegabile – racconta Rondolino – Resta con loro per quasi tre mesi, poi le SS tornano e la portano via. Non sappiamo perché. È un mistero che nessun documento riesce a chiarire. È il punto cieco della storia».
L’arrivo di Elena a Fossoli
Poi arriva a Fossoli, campo di transito per i deportati verso la Germania. E qui Elena resta quindici giorni: «Per lei, ne sono certo, deve essere stato un periodo allegro». Dopodiché, la lista del 5 aprile 1944 segna anche il suo nome. «Ho consultato gli archivi, cercato testimonianze, ma nessuno dei sopravvissuti di quel periodo ricorda una bambina sola. Forse – dice Rondolino – proprio per il suo carattere allegro e socievole non furono giorni orribili. Mi piace pensare che qualcuno le abbia parlato, che non si sia sentita del tutto sola». Scrivere di Elena, per lui, è stato un viaggio nella memoria e nel dolore: «Tante volte – confessa – mi sono dovuto fermare. Non volevo trasformare la sua storia in un romanzo. Ma non è stato facile». Tra i documenti emergono dettagli di vita: il cane Flait, le vacanze in Liguria, il suo caratterino. Tutto quello che c’era prima, e che «basta a ricordare che Elena non era una delle sei milioni».
La Shoah e i giorni nostri
«Dobbiamo pensare alla Shoah non come a un numero – prosegue Rondolino – ma come a una somma di vite, una per una. Ogni nome è un mondo intero». E mentre parla, torna sull’oggi: «Vedo tornare, con altre parole e altre bandiere, un antisemitismo antico. Il governo israeliano ha tutte le sue colpe, ma l’odio per gli ebrei non nasce in Medio Oriente. È un’invenzione dell’Europa cristiana, uno dei suoi pilastri per secoli. La Shoah non è stata solo tedesca, è stata europea. E temo che, ancora oggi, non abbiamo imparato la lezione». «Quella cartolina che scrisse prima di partire è impossibile da leggere senza commuoversi – conclude – Dentro, c’è l’ingenuità, la fiducia, la luce di una bambina che crede. È per lei che ho scritto questo libro: perché non resti un nome tra i tanti, ma una voce viva che ci chiede di non dimenticare».
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