Gazzetta di Modena

Il processo

Morto nel pozzo, la rabbia del fratello: «Voglio giustizia, non lascio solo Giuseppe»

Ambra Prati
Morto nel pozzo, la rabbia del fratello:  «Voglio giustizia, non lascio solo Giuseppe»

Caso Pedrazzini: segregato da vivo e nascosto da defunto per l’eredità

26 maggio 2023
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Toano «Siamo qui per avere giustizia. Per dare voce a Giuseppe. Noi di sicuro mio fratello non lo lasciamo solo». Così ieri in tribunale a Reggio Claudio Pedrazzini – costituitosi parte civile tramite l’avvocato Naima Marconi e attorniato dalle figlie Veronica, Eleonora e Valentina – ha commentato a margine della prima udienza preliminare sul giallo di Toano.

Il 21 maggio 2021 il cadavere di Giuseppe Pedrazzini, pensionato di 77 anni, è stato trovato in un pozzo vicino alla sua abitazione a Cerrè Marabino, frazione di Toano. Alla sbarra la moglie Marta Ghilardini (difesa dall’avvocato Rita Gilioli), la figlia Silvia Pedrazzini e il cognato Riccardo Guida (avvocato Ernesto D’Andrea), questi ultimi considerati le menti della terribile vicenda. La pm Piera Giannusa ha contestato ai tre reati pesanti: maltrattamento con l’aggravante di avere provocato il decesso e aver commesso tali atti in presenza di un minorenne (il nipote della vittima); sequestro di persona con l’aggravante, per Marta, di averlo commesso ai danni del coniuge e per Silvia Pedrazzini della consanguineità; omissione di soccorso con l’aggravante del decesso della parte offesa; soppressione di cadavere e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (la pensione Inps di Giuseppe). In un primo momento la Procura aveva ipotizzato che il pensionato fosse stato ucciso, ma poi una perizia ha escluso la morte violenta. Da notare che nel caso in cui dai maltrattamenti derivi la morte la pena prevista è la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Secondo la Procura, i tre imputati hanno segregato l’uomo – impedendogli di ricevere visite, chiudendolo a chiave in casa, segregandolo a letto, somministrando tranquillanti e alimentandolo pochissimo – solo per gestire in totale autonomia i suoi beni.

Nell’udienza preliminare di ieri, davanti al gup Andrea Rat, le strategie dei tre imputati hanno preso definitivamente strade diverse: il legale di Marta Ghilardini, presente in aula, ha chiesto il non luogo a procedere e il dissequestro dei beni (negato); mentre l’avvocato D’Andrea (per i coniugi Silvia e Riccardo, che si trovano agli arresti domiciliari al Lago di Bolsena, per farli tornare in carcere il pm Giannusa ha presentato ben due impugnazioni pendenti una in Appello e una in Cassazione) ha chiesto e ottenuto il rito abbreviato. Il giudice non può esprimersi sulla prima richiesta perché la sentenza dev’essere contestuale per tutti e tre: perciò Marta dovrà attendere che si concluda il processo per figlia e genero (Silvia sarà esaminata nella prossima seduta).

Nell’udienza c’è stata una sola costituzione di parte civile, quella di Claudio Pedrazzini, il quale secondo il legale «ha voluto essere presente nel penale, con sofferenza, anche a nome degli altri parenti. Questo è solo l’inizio del procedimento».

«Io ci metto la faccia, ma siamo tutti uniti nel volere giustizia», dichiara Claudio, titolare dell’hotel Marola. «Cosa spero? Voglio giustizia, voglio che i colpevoli paghino. Non mi interessa nulla del risarcimento: spero solo che quei tre stiano dietro le sbarre».

Anche dall’intervento delle figlie di Claudio emerge la spaccatura familiare insanabile tra i congiunti della vittima e gli altri familiari, estromessi con varie scuse dalla “esistenza” del pensionato. «Il denaro interessava a loro, che non lavoravano e che per avidità sono arrivati a un punto impensabile. Noi abbiamo un’attività, non abbiamo bisogno». Per il fratello e le nipoti «Giuseppe ha fatto una fine peggiore di quel che ci aspettavamo. È stato terribile apprendere con il contagocce certi particolari: mesi e mesi di segregazione... Non immaginavamo». Su Silvia e Riccardo ai domiciliari, Claudio è perentorio: «Stanno meglio di me. E meglio del povero Giuseppe». Marta con loro non ha scambiato nemmeno uno sguardo; il gruppo parla di «atteggiamento di spocchia, come se non si sentisse nemmeno in colpa». L’avvocato Marconi: «Marta deve chiedere scusa e dire la verità: la sua non è stata una confessione sentita e piena». l

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