Con Vito un inno al... sapore dei versi
L’attore bolognese ha interpretato Pascoli, Gozzano, Saba, Giudici
CASTELNUOVO. Risate a crepapelle, l'altra sera, in piazza con Vito che ha tessuto legami tra cibo e poesia, anche attraverso brani di famosi autori. Uno spettacolo di autentica saporosità, con episodi di coloriture estremamente quotidiane, legate alle esperienze personali e familiari dell'attore. Ma non potevano mancare gli sconfinamenti nel campo dell'eros, quasi a trovare corrispondenze tra la sazietà del cibo a quella dei sensi. La parte puramente letteraria si è fondata su testi di Pascoli che, in dialogo poetico con il giornalista Guido Bianchi, sostiene la maggiore bontà del risotto romagnolesco rispetto a quello milanese; di Guido Gozzano che parla delle “golose” torinesi, di cui è innamorato, che mangiano le paste nelle confetterie; di Umberto Saba che, nel 1931, si sofferma sulla cucina economica, lodando “le delizie (la polenta...) dell'anima mia”; di Giovanni Giudici che esalta “le ore migliori”, quando il cibo conforta, dopo la fatica; di Gianni Rodari che vorrebbe essere fornaio per fare una pagnotta così grande da sfamare tutti. Così “un giorno senza fame, sarebbe il più bel giorno della storia”. E sostenendo una vicinanza stretta tra sapori, profumi e parole, il critico Roberto Galaverni ha ricordato, durante la presentazione, la vasta letteratura che connota questo tema, a partire dall'Odissea, con il naufrago Ulisse che, raccolto da Nausica, può godere non solo di un lauto pasto ma anche dei versi cantati da Demodoco. L'ironia è davvero il sale della vita. E con giocosa benevolenza Vito si è fatto interprete della lunga filastrocca “L'angoscia del dì di festa” dell'estroso giovane di Castelnuovo Enrico Saccà. Una narrazione sorprendente, con cui l'attore bolognese è riuscito a ritagliare scene e situazioni, chiamando in causa i tortellini (la storica disfida è sempre tra Modena e Bologna) della nonna Egle che, una volta, si mangiavano, con tutti i crismi dell'autentica e bontà, solo a Natale e Pasqua. Guai a non dosare bene gli ingredienti e non curare bene la sfoglia. Ci si poteva rovinare la festa. Era il nonno a decretare la squisitezza, con lo sguardo che saliva al cielo. Il risucchio era d'obbligo. Un inno, quindi, alla buona cucina. E una vita di appagamenti, di godimenti va dalla passione per il cibo a quella amorosa. Inevitabile citare certe trasgressioni di Cesare Zavattini che Vito ha conosciuto. Come ha conosciuto Fellini, con il quale ha partecipato al film “La Voce della Luna”.