Emma Dante a Modena: «Misericordia, l’amore nasce dove meno te lo aspetti»
La regista presenta il film in Sala Truffaut
Modena Un ragazzo magro balla nudo tra le rocce: è Arturo, vive in un mondo ai margini di grande degrado, una baraccopoli cadente tra il mare e il monte, sulla costa siciliana. Orfano e menomato, è accudito da Anna, Nuzza e Bettina, tre prostitute, che di giorno sferruzzano e di notte lavorano.
Nei suoi film, come in questo “Misericordia”, e come nelle sue pièce teatrali, Emma Dante mette in scena pezzi di umanità: le donne, i bambini, la maternità, la violenza, i tentativi di evitarla e di andare oltre. Il film, distribuito da Teodora, viene presentato in anteprima alla sala Truffaut questa sera alle 20, 30, alla presenza della regista, che incontrerà il pubblico.
Occasione per porle alcune domande su questa pellicola.
Dante, partiamo dal titolo, “Misericordia”, una parola potente ma ormai poco usata.
«Assolutamente, è il sentimento che provo quando vedo un disgraziato, ha in sé qualcosa di umano più che di religioso. Esprime un dolore profondo che ci riguarda e che vogliamo condividere con gli altri. Anche nel degrado, nella disperazione, le donne del film provano misericordia per un ragazzo difettoso nato dalla violenza, lo trattano come un figlio, vogliono sottrarlo a un destino crudele».
Come è nata l’idea del film?
«Mi trovavo in ospedale e ho visto un ragazzino autistico che girava su se stesso come un derviscio. La sera, sono andata a teatro e ho visto questo danzatore, Simone Zambelli, che nel film interpreta Arturo: mi ha folgorato, con la magia dei suoi movimenti. Le due suggestioni si sono unite. E poi, c’è stata la mia maternità, alcuni anni fa ho adottato un bambino e questo mi ha scatenato una sensibilità particolare. Perché il film parla di maternità, di una comunità femminile che si fa carico di un bambino, dell’amore che nasce dove meno te lo aspetti. Ho dedicato il film a mio figlio».
Come sempre, nel suo cinema c’è una commistione di neorealismo e dimensione favolistica…
«Parto sempre dalla ricerca di una verità nuda e cruda, la verità dei corpi che occupano uno spazio, che sono avvolti da una luce forte. C’è una comunità di derelitti che vive nel fango, nel degrado ignorato dalla società. Però c’è anche una dimensione onirica legata alla favola, perché la storia è letta con gli occhi di un ragazzo rimasto bambino, una specie di Pinocchio, una creatura libera, felice, un’anima innocente, che vive nella sua idiozia ed è protetto da tre madri. Ma ogni favola, lo sappiamo, nasconde una realtà spesso orribile».
I luoghi del film sono molto importanti.
«È la riserva naturale di Monte Cofano, nel Trapanese. Un luogo magico, bellissimo, però minacciato da una montagna soggetta alla caduta di massi, che sputa pezzi di roccia. È quello che cercavo: un luogo bello ma soggetto al pericolo, perché la natura a volte si ribella. Custodisce, alleva, fa crescere, ma talvolta può distruggere».
C’è il tema della sorellanza, che ritorna nei suoi film.
«Certo, le donne del film sono solidali tra loro, anche perché si tratta di prostitute che hanno un pappone maschile che le sfrutta, Polifemo, che ha ucciso la madre di Arturo e vorrebbe sbarazzarsi anche di suo figlio. Si tratta di una comunità orribile in cui le donne sono soggette al potere maschile, umiliate, sfruttate, mercificate».
Il film nasce da un suo spettacolo teatrale. Come è stato il passaggio dal palcoscenico allo schermo?
«Piuttosto naturale, ho riscritto la storia con Elena Stancanelli e Giorgio Vasta, volevo sguardi diversi che mi aiutassero a prendere le distanze dallo spettacolo teatrale, anche se la storia è la stessa. Volevo abbandonare il buio del palcoscenico e abbracciare la luminosità del paesaggio naturale. Dal teatro al cinema è un bel volo, ma entrambi sono luoghi in cui mi sento in bilico, in pericolo. E questo mi dà molta forza».