L’Ennesimo Film Festival si apre con Giovanni Muciaccia: «Bello portare l’arte anche nei teatri»
Il volto storico della trasmissione televisiva Art Attack sarà protagonista del primo appuntamento della manifestazione domenica 27 aprile, alle 17, al Teatro Astoria di Fiorano: l’ingresso è libero e gratuito
FIORANO. “L’arte scuote dall’anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni”, scriveva Picasso. E forse è proprio quella polvere, diventata oggi digitale, che Giovanni Muciaccia ha sempre cercato di spazzare via a colpi di colla vinilica, cartoncini colorati e pennarelloni. Simbolo di un’epoca in cui la creatività passava per le mani prima che per lo schermo, il volto storico della trasmissione televisiva Art Attack oggi torna a stupire platee di ogni età con nuovi linguaggi e vecchie passioni. A Fiorano Muciaccia inaugurerà domenica 27 aprile, a partire dalle 17, Ennesimo Film Festival: appuntamento al Teatro Astoria – l’ingresso è libero e gratuito – dove l’artista si racconterà in una conversazione che è al tempo stesso riflessione sul presente e invito a riappropriarsi di un’arte viva, concreta, umanissima. E manuale, perché non mancheranno momenti di… creatività assieme al pubblico.
Muciaccia, quale valore attribuisce alla possibilità di portare l’arte fuori dalla televisione e dentro i territori?
«È un valore immenso. Il festival è uno spazio vitale, quasi un atto di resistenza culturale. È un luogo in cui si mettono in moto idee, si offrono strumenti, si aprono orizzonti. Il mio spettacolo sarà un viaggio nel mondo dei meme, ma declinati in modo inedito: meme di carta, meme da costruire. Partirò da lì per far vedere Banksy come non lo si è probabilmente soliti guardarlo. E chi uscirà dalla sala, lo farà con un piccolo bagaglio nuovo, un’esperienza che arricchisce davvero».
Lei ha sempre avuto a cuore l’infanzia. È cambiato il suo modo di “fare arte per i più piccoli”?
«L’essenza no. È rimasta la fascinazione per la trasformazione, per il gesto che crea. Ciò che è cambiato è il mezzo: l’arte non è più in tv, ma nei feed, nelle stories. Tuttavia la manualità non è morta: è solo stata messa in secondo piano da un sistema che tende a vendere più schermi che pennarelli. «Ma io vedo i miei figli, e so che l’interesse c’è. Ieri, ad esempio, abbiamo fatto insieme un lavoro artistico: quattro mani, quattro sguardi, un entusiasmo contagioso e tanta voglia di mettersi all’opera, un po’ come vent’anni fa. Il problema non sono i bambini, ma ciò che gli adulti offrono loro».
C’è dunque un equivoco culturale dietro l’idea che i giovani siano disinteressati alla manualità?
«Assolutamente sì. Si dice: “I ragazzi non fanno più niente con le mani”. Ma se nessuno glielo propone, come potrebbero? Viviamo in un sistema che punta a creare consumatori perfetti, non cittadini creativi. È più facile vendere un tablet che un barattolo di tempera. Diciamo così: che se cambi proposta, cambi risposta. Art Attack funzionava anche se i bambini non riproducevano i progetti: bastava l’immaginazione, e poi, magari, ciascuno riproduceva a modo suo. Era uno stimolo, non un compito. E lo stesso vale oggi: se metti online contenuti manuali ben fatti, la gente li segue; come mia figlia è una grande fruitrice di quei tutorial. Ecco, rilevo che il bisogno c’è, e serve solo nutrirlo».
Ecco il ruolo della famiglia. Peraltro molti dei suoi ex spettatori sono oggi genitori.
«L’educazione non è solo “grazie” e “prego”. È attenzione, valorizzazione, esempio. Se tuo figlio ingrassa, sta sempre seduto, non si lava, non puoi non interrogarti come genitore. È una responsabilità. E così l’educazione alla manualità è educazione al rispetto del corpo. Se gli dai solo un aggeggio da schermo, cosa gli stai comunicando? Che il mondo è consumo. E invece c’è un universo da costruire con le mani, che basta insegnare a vederlo».
Il suo volto è legato a ricordi d’infanzia collettivi e intergenerazionali. Cosa significa oggi, per lei, “essere Giovanni Muciaccia”?
«È una bellissima responsabilità. Ricevo affetto ovunque vada, la gente si commuove, mi ringrazia. E io ho imparato a capire il peso di quella gratitudine. Quando mi dicono “grazie per l’infanzia che mi hai regalato”, oggi so cosa vuol dire, perché anche io sento il bisogno di ringraziare persone che seguo. È il segno che ho lasciato qualcosa, oltre alla colla e ai cartoncini. Credo questo sia il premio più grande».
Su cosa sta lavorando ora, artisticamente e professionalmente?
«Porterò a breve in tournée uno spettacolo che ha l’ambizione di parlare di arte attraverso l’arte. Lo farò raccontando opere di duemila anni fa e mettendole in relazione con il nostro presente. Racconto l’arte relazionale, quella che mette in dialogo le persone, che scalda contro il gelo degli algoritmi delle macchine; il debutto di questo nuovo spettacolo sarà a Milano ad inizio maggio. E poi continuo a creare: sono due anni che mi dedico alla scultura, in una mia personale ricerca. Ogni giorno è un’occasione per tornare a “fare”, anche perché, in fondo, non ho mai smesso di “attaccare” l’arte alla vita».
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