Maurizio e Vincenzo, parlano i due infermieri picchiati: «Abbiamo ancora paura»
Alaimo è stato il primo ad essere aggredito dai parenti della paziente che aveva rifiutato un prelievo di sangue da un tirocinante: «Offeso, minacciato e poi aggredito a calci e pugni, grondavo di sangue e non riuscivo a scapppare». Giambruno è corso in suo aiuto: «I segni di questa violenza mi ricordano quanto fragile possa essere il confine tra cura e pericolo»
MODENA. L’angolo di quel reparto ora sembra diverso. È lo stesso di sempre: pavimenti chiari, odore di disinfettante. Se non fosse per i tonfi dei calci e i rumori sordi delle botte che adesso riecheggiano come un presagio nella memoria di chi ha visto tutto coi propri occhi, e l’ha vissuto sulla propria pelle. Per Maurizio Alaimo e Vincenzo Giambruno, i due infermieri che lunedì hanno subito un’aggressione fisica mentre stavano solo cercando di svolgere il proprio lavoro, quel luogo familiare si è trasformato in uno scenario di violenza, minacce e paura. A due giorni da quell’evento drammatico, i loro volti portano ancora i segni: graffi, lividi e, soprattutto, occhi che sono i testimoni di uno spavento difficile da dimenticare.
Tutto è nato da un prelievo sgradito
«Tutto è cominciato da un gesto semplice – racconta Alaimo, da tempo tutor dei nuovi tirocinanti –. C’era una paziente che doveva fare un prelievo, e così ho chiesto a un giovane tirocinante di occuparsene. Ma lei si è rifiutata subito. Ha detto che era una dirigente di un reparto dell’ospedale di Reggio Calabria, e che non avrebbe permesso di essere toccata dalle mani inesperte di un ragazzo in formazione. Ho provato a spiegarle che per noi è fondamentale che i nostri studenti imparino così, sul campo, e che soprattutto lei, in quanto dirigente, avrebbe dovuto dare l’esempio e fidarsi del nostro tirocinante. E questo l’ha fatta infuriare».
L’arrivo dei parenti in reparto
Non avrebbe mai potuto immaginare, dopotutto, che da una semplice richiesta potesse scaturire una scena di furia incontrollabile. Chiamati dalla paziente stessa, sono arrivati i suoi parenti. Si sono precipitati nel corridoio rabbiosi e, in un attimo, sono scesi sul personale.
«La figlia si è presentata come avvocato, il figlio come rappresentante sindacale. E con quelle qualifiche mi hanno messo all’angolo, in tutti i sensi», racconta Alaimo. E poi c’è stata una successione rapida di fatti. «Mi hanno insultato, dicendomi che ero un “pezzo di merda”, che mi avrebbero fatto passare “dei minuti di inferno” – spiega – E lo hanno fatto davvero. A un certo punto mi hanno spinto contro la parete, bloccandomi. Ho sentito che mi arrivavano calci e pugni. Il sangue grondava dal mio viso e io non riuscivo a scappare, non avevo la forza».
Il collega intervenuto in soccorso
E proprio mentre i colpi si moltiplicavano, il collega Vincenzo Giambruno, richiamato dal rumore e dalle urla, si è reso conto dell’orrore che si stava consumando. «Davanti a me c’era Maurizio, a terra. Il sangue che gli colava dal volto non riusciva a fermarsi – racconta a voce bassa Giambruno – Mi sono lanciato in mezzo, e ho cercato di creare una via di fuga».
E ci è riuscito, permettendo a se stesso e al collega di allontanarsi da quei tre soggetti violenti. Anche se il costo, fisico e morale, di quei minuti interminabili è stato salato.
Quella paura che non passa
«Ora ho paura – confessa Alaimo – Quando sono andato a prendere mio figlio a scuola mi è passato un pensiero tremendo per la testa: e se non fossi riuscito a tornare da lui? È un interrogativo che mi tormenta, e credo che non mi lascerà stare per un po’». La voce gli si incrina di nuovo, il volto è serio, segnato dai lividi. «Anche mia moglie è infermiera. Ho pensato che quella cosa sarebbe potuta accadere a lei. Non riesco a sopportarlo».
E per Giambruno la situazione non è meno pesante: «Sono due giorni che non riesco a dormire – afferma provato – La voglia di continuare a fare l’infermiere c’è sempre, perché la mia, la nostra, è una missione, un impegno verso la comunità. Ma i segni di questa violenza che ho addosso mi ricordano continuamente quanto fragile possa essere il confine tra cura e pericolo».